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Cronista precario e sotto scorta “perché l’Italia non è un paese normale”

di    -    Pubblicato il 15/01/2012                 
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La mattina del 22 dicembre un ragazzo di 29 anni, che fa il giornalista, mentre beve il caffè e legge la rassegna stampa, viene a sapere che da quel momento in poi non potrà più uscire da solo e sarà affiancato da una scorta. Il motivo? Permettergli di continuare a svolgere serenamente il suo lavoro perché considerato “persona a rischio”. Un lavoro che, per giunta, è precario visto che è un giornalista freelance. Giovanni Tizian, calabrese, da tre anni collabora con la Gazzetta di Modena e si occupa di mafie, dei loro movimenti sotterranei in tutto il Paese, di come si infiltrano indisturbate nella società sotto forma di azioni legali. Probabilmente le sue inchieste “scomode” avranno infastidito più di qualcuno.

La tua vicenda dimostra che in Italia è un problema raccontare la realtà.

Sì, può creare problemi farlo perché l’Italia non è ancora un Paese normale.

Come convivi con il pensiero di quello che ti sta capitando? Avevi ricevuto altre minacce?

No, è stata una novità assoluta. Quando me l’hanno detto sono rimasto così, non me l’aspettavo. Ora sto cercando di adattarmi alle nuove regole e allo stesso tempo sto continuando a lavorare a delle inchieste per varie testate. Fa ancora più rabbia farlo da precario e con qualcuno che mi sta minacciando.

Sei stato sostenuto dalla tua redazione?

Sì, tutti mi hanno dato massima libertà e spazio, anche durante le vicende di querele. Forse perché costavo poco, mi chiedo adesso. Altra cosa la questione dello sfruttamento: pagare un pezzo 4 euro o 6, o anche solo 20, per una pagina con nomi e cognomi come fanno tanti ragazzi giovani, è degradante per la dignità dei lavoratori. Lo si fa perché la passione prevale, non si riesce a dominarla.

Precarietà significa soprattutto vulnerabilità, poca protezione..

Lavorando a cottimo devi chiaramente produrre più articoli possibili. Nelle condizioni in cui mi trovo adesso se riesco a farne uno è già tanto. Ho difficoltà a muovermi liberamente e poi devo rispettare chi mi accompagna.

A dicembre hai pubblicato un libro sulle infiltrazioni della criminalità organizzata nel Nord: Gotica. ’Ndrangheta, mafia e camorra oltrepassano la linea. Che filo hai seguito?

La linea dei poteri mafiosi che operano nel Nord: Emilia-Romagna, Liguria, Piemonte, Lombardia e tutte le cosche di ‘ndrangheta, camorra e Cosa nostra. Ho preso il materiale raccolto sia per la Gazzetta, che per i siti sui cui lavoravo, linkiesta.it e narcomafie. Ho poi cercato di raccontare le carte, che non sono sempre facili da leggere, seguendo un filo romanzato, per renderle più leggibili. Le ho messe in ordine e ho dato un senso logico,  per quanto possa esserci. Quando cambi da regione a regione mutano le dinamiche, anche se si assomigliano molto.

C’è consapevolezza di quanto siano estesi i fenomeni mafiosi in territori giudicati ‘vergini’ rispetto al meridione?

E’ ancora poca. C’è una presunzione di innocenza, questo continuare a dire “abbiamo gli anticorpi, siamo una terra che non accetta i compromessi”. Forse si aspettano di trovare il boss con la coppola e la lupara che gli va a chiedere 1.000 euro, ma non è più così. Il boss va dall’imprenditore per contrattare e gli dice: “ti offro questo servizio, entri in complicità con me”. E poi scopri che c’è un’imprenditoria che fa affari volentieri con i mafiosi perché i loro servizi costano meno, sono più concorrenziali oppure vanno a cena insieme o fanno fatture per le loro imprese. Le indagini lo dimostrano: i rapporti che hanno reso forti le mafie nel Sud sono già in atto al Nord. E le persone dopo ti dicono “ah, non pensavo fosse..”

Nel rapporto di Ossigeno per l’informazione’, che monitora la situazione dei giornalisti minacciati, si dice che le mafie cercano di entrare nell’informazione per impedire che certe notizie arrivino all’opinione pubblica. Che ne pensi?

Ci provano, quanto meno. Dove c’è potere, c’è sempre un potenziale pericolo. Di sicuro è nell’interesse delle mafie imporre la loro presenza anche nel giornalismo, bisogna capire come e con quali strumenti. Non penso che la stampa abbia abbassato la guardia, credo sia più una questione di come è cambiata l’informazione. Oggi molti giornalisti fanno inchieste, certo meno di un tempo, ma perché i lettori vogliono la notizia veloce.

Il tuo è un messaggio importante, un atto d’amore per il giornalismo. Una lezione di coraggio per tutti ma soprattutto per i giovani, come te, che vogliono fare questo mestiere, sempre più sfiduciati per le condizioni di lavoro.

Abbiamo sopportato tanto, speriamo che qualcosa si muova. I giovani chiedono, in fondo, solo di poter affermare dei principi universali: meno precarietà e meno sfruttamento.

“Una cosa è certa: andrò avanti” dice Giovanni, a cui la ‘ndrangheta ha già ucciso il padre Giuseppe, funzionario di banca a Locri, quando aveva sette anni, nel 1989.  A Modena, dove si trasferì con la famiglia, ha iniziato a scrivere di mafie. E dall’Emilia, dal web e da tutto il Paese sta ora ricevendo un sostegno sincero e tanta vicinanza. In particolare le associazioni daSud e Stop’ndrangheta.it, che hanno raccolto centinaia di adesioni con la campagna Io mi chiamo Giovanni Tizian”.

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