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I centomila volti della Verità, il convegno a Urbino con Morosini e Menichelli

URBINO – “Agnese Borsellino è morta e raggiunge il suo Paolo. Adesso anche lei saprà finalmente la verità”. Questo è il messaggio che qualche giorno fa, subito dopo la morte della moglie del magistrato palermitano ucciso nel luglio del 1992, è rimbalzato in Rete. La ricerca della verità viene perseguita in maniera differente a seconda da chi la cerca. Concorre alla costruzione di una coscienza collettiva ed è più attendibile se fondata su un pluralismo fatto di soggetti con identità molto diverse tra loro.

Per questo il nome dell’incontro di ieri pomeriggio al Rettorato dell’Università di Urbino, “Una nessuna, centomila: le facce della verità. La verità processuale, la verità dei fatti, la Verità”, ricalcando il titolo di una famosa opera di Pirandello, ben esprimeva le multiformi accezioni e i significati che il termine può assumere nella società contemporanea.

Più voci a testimoniare porzioni e visioni attorno al tavolo di discussione: quella di due giornalisti, un magistrato e un ecclesiastico. Legati in vario modo al concetto di verità. Introdotto dai direttori dei dipartimenti che hanno organizzato l’incontro: Paolo Pascucci per il dipartimento di Giurisprudenza e Lella Mazzoli per quello di Scienze della Comunicazione.

A parlare di uno dei grandi desiderata della professione giornalistica Giancarlo Ghirra, segretario dell’Ordine nazionale dei giornalisti e Franco Elisei, direttore de Il Messaggero di Pesaro. “Nella vita ordinaria ci sono tante verità: scomode, su misura – ha spiegato Elisei – interiori, esteriori e sostanziali, per capirci verità dei fatti. Ma al di là della definizione dei diversi tipi di verità mi pare sia corretto porre l’accento del discorso su quella che mi sembra un’esigenza di trasparenza”.

L’ottenimento della verità, infatti, secondo Ghirra è un’aspirazione del giornalista, che muovendosi in condizioni di approssimazione, può avere difficoltà a raggiungerla. Ma secondo entrambi ciò che non deve mai venir meno è la preparazione e la correttezza etica e deontologica: “Non dobbiamo essere burattini nelle mani di un burattinaio – ha aggiunto Elisei – né essere portatori sani di bugie altrui. Neanche la buona fede può essere una giustificazione”.

La verifica puntuale dei fatti è imprescindibile per lo svolgimento della professione giornalistica, tesa a fornire un servizio al cittadino che solo se informato può essere libero. Muoversi eticamente nel mondo del giornalismo, però, può presentare qualche difficoltà secondo il segretario dell’Ordine, soprattutto in un paese che si posiziona al cinquantasettesimo posto per libertà di stampa. “Il giornalismo italiano è malato – ha detto Ghirra – perché nel nostro Paese non esiste il cosiddetto editore puro. Ci sono troppi conflitti di interesse che condizionano la stampa. E’ difficile per il giornalista far cadere questi vincoli. Per questo per me è importante lottare anche contro leggi come la legge bavaglio: non per dare un potere corporativo alla categoria dei giornalisti ma per fare in modo che svolgano un servizio corretto nei confronti dei cittadini”.

L’accertamento dei fatti e l’avvicinarsi quanto più possibile alla verità richiede una preparazione che forme di giornalismo dal basso, come il citizen journalism, non possiedono. “Il giornalista seleziona, filtra, divide notizie calunniose da notizie reali – ha affermato Ghirra – esercita una professione eticamente difficile. Per questo una legge adesso ci impone una formazione permanente”.

Il giudice Piergiorgio Morosini

La responsabilità e la tragicità della ricerca di una verità che può sacrificare vite individuali o collettive è emersa anche dal discorso del giudice Piergiorgio Morosini che ha evidenziato la fragilità della verità giudiziaria. “Crediamo sul serio, come pensava Cesare Beccaria, – ha detto Morosini – che il giudice sia un imparziale e indifferente ricercatore del vero? Non è così. Il giudice in quanto uomo è un individuo sottoposto a condizionamenti di vario tipo e la verità giudiziaria è una verità particolarmente probabilistica oltre che molto limitata. Basti pensare che emerge dalla valutazione non di fatti ma di fonti di prova”.

Ogni giudice porta dentro di sé, secondo Morosini, un bagaglio di ideologie che permeano i suoi pensieri. E quandanche queste ideologie restassero fuori da lui, rientrerebbero in aula sotto forma di leggi o opinioni. “Il fine di un processo non è soltanto l’ottenimento della verità, l’incriminazione dei responsabili, la difesa della società – ha continuato il giudice – ma contano anche la dignità e la civiltà dello strumento utilizzato per ottenere la verità. Quest’ultima si costruisce con una serie di indizi che convergono verso un risultato. Per questo può essere così labile”.

“L’estate scorsa è stato il periodo in cui si è più parlato delle intercettazioni di Napolitano e Mancino – ha spiegato Morosini – rivendicando trasparenza. Ma come se ne è parlato? In termini di gossip. A nessuno importava veramente scoprire cosa è successo nella stagione delle stragi e questo è un problema, perché molto spesso nel nostro Paese si sviluppano due processi paralleli di cui uno sui mezzi di comunicazione. Tutto questo con l’aggiunta delle pressioni di vari poteri ostacola l’accertamento dei fatti: basti pensare che il processo sulla strage di via D’Amelio per anni si è mosso su verità giudiziarie parziali o su depistaggi”.

Monsignor Menichelli, Giancarlo Ghirra e Franco Elisei

Una voce fuori dal coro del “relativismo” della verità – o quantomeno della sua eterogeneità – è stata quella dell’arcivescovo di Ancona, monsignor Edoardo Menichelli, che ha sottolineato come la società contemporanea sia approdata a conclusioni poco rallegranti che si basano sul presupposto che la verità in fondo non esista. “Si tratta di una situazione esistenziale – ha detto Monsignor Menichelli – inzuppata in una solitudine incredibile, che crea una diffusa incomunicabilità. E’ l’epoca del relativismo assoluto, del ‘per tutto c’è un’altra verità’. Invece bisognerebbe per prima trovare la verità dentro noi stessi, avere il coraggio di dirsi la verità, ovvero che siamo infinitamente piccoli”.

Un percorso esistenziale, quello promosso dall’arcivescovo di Ancona, che si muove sui binari della sapienza e della libertà. Binari sui quali passerebbe anche il coraggio di scavare dentro di sé. “Sant’Agostino – ha aggiunto Monsignor Menichelli – diceva che non cerca se non chi è cosciente della propria povertà . Oggi siamo dentro una tortura della non verità, perché di verità ce ne sono centomila. E questo succede perché abbiamo tolto il punto di riferimento, abbiamo messo in soffitta  la sorgente della verità e con questa anche la nostra identità”.

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