URBINO – Una volta le catechiste raccontavano ai bambini che per parlare con Dio bastava fare il gesto del telefono con la mano e lui ascoltava. Ora per parlare con Dio, basta avere un account su Twitter.
“Dio” è un ragazzo di Foligno sulla trentina, barba incolta, laurea in filosofia (forse perché quella in teologia ce l’ha di diritto), ma soprattutto capacità di essere ovunque, almeno sul web. In una scena del film “Una settimana da Dio”, Jim Carrey, neo-assunto a interim alla carica più alta del Paradiso, capisce quanto sia frustrante dover ascoltare tutte le preghiere del mondo, come una Babele sonora che risuona nella sua testa. Anche @Iddio (questo il suo tag), è vittima di centinaia di “preghiere” ogni giorno. Tweet e menzioni a cui dover rispondere, perché Dio, come insegnavano le catechiste negli anni ’90, ascolta tutti e, a suo modo, risponde.
Dopo aver fatto discendere la sua luce sul Festival del giornalismo culturale, Dio torna nella città ducale per Branding 2.0, convegno organizzato dalla Facoltà di Sociologia sull’E-commerce e il co-working. Il suo tweet “Urbino, spianati, è Dio che lo vuole!”, fa capire che le salite di via Saffi e via Raffaello non gli vanno a genio. E’ seduto in un banchetto di un buio corridoio dell’Università di Urbino che potrebbe assomigliare tranquillamente a un confessionale, anche se, stavolta, è Dio a confessarsi.
Dio, come e quando è nata l’idea di iscriversi a Twitter? E’ stato prima o dopo il Papa?
Prima. Il profilo nasce quasi due anni fa, a maggio del 2011, quando ancora Twitter era un fenomeno poco conosciuto in Italia. Fu per gioco, perché di questo si tratta ancora.
Ma oltre a twittare follemente, come si mantiene l’onnipotente?
Dopo essermi laureato in filosofia avrei voluto insegnare ma ho perso le speranze. Al “concorsone” in cui si sarebbero dovute assegnare 11.000 nuove cattedre non sono andato. Ho fatto bene perché con la nuova legge sul lavoro chi sarebbe dovuto andare in pensione non c’è andato e dei giovani non è stato assunto nessuno. Ora scrivo per Leonardo.it e ho un programma su La3Tv, dove tengo una rubrica settimanale in cui racconto le mie migliori battute. D’estate lavoro nei catering. E’ un lavoro che mi piace perché tengo libera la mente e ho più tempo per pensare, magari osservando la gente. Sì, Dio fa anche il cameriere».
128.000 followers sono tanti, ma sono comunque meno di One Direction e Justin Bieber. Un po’ pochino per Dio.
Una volta ho superato Justin Bieber tra le persone più influenti sul social network. Youtube era primo e Alberto Savino secondo. Justin Bieber era saldamente in terza posizione e ogni tanto, dopo il suo, appariva il mio nome. È partita una campagna mediatica e tra menzioni e tweet, per un breve momento, il gradino più basso del podio è stato mio.
Era presente al Festival del giornalismo culturale di Urbino. Cosa le è piaciuto? Cosa si potrebbe migliorare?
L’unico appunto che posso fare è stato la mancanza di internet durante i dibattiti. Ho dovuto elemosinare wi-fi un po’ qui e un po’ li. Per il resto è stato un bellissimo evento. Il giornalismo culturale è molto sentito in Italia e c’è bisogno di promuoverlo. Lella Mazzoli ha detto che in Italia c’è più voglia di andare a sentire uno scrittore piuttosto che leggersi un libro. Se c’è Saviano che parla moltissima gente che magari non ha letto Gomorra vuole ascoltare quello che ha da dire. Poi forse dopo l’evento, va in libreria e se lo compra. Per questo sono importanti manifestazioni come questa. Con la cultura si mangia!
Dio, pensa che la cultura in Italia sia un po’ troppo elitaria? I social network possono aiutare i giovani a riavvicinarsi?
L’Italia ha sempre avuto una classe intellettuale gelosa del proprio ruolo. Raramente ci si è posti il problema di insegnare e diffondere il sapere a tutti. Internet e i social network non sono la soluzione. Twitter e Facebook non abituano alla lettura, anzi. Al massimo possono suggerire.
Qual è stato il tweet più ritwittato? E la domanda più strana in cui l’ hanno taggata?
Il tweet più ritwittato è sempre quello giusto al momento giusto. Quest’estate, quando l’Italia perdeva la finale degli Europei contro la Spagna, scrissi ‘Non possiamo perdere contro gente che da quattrocento anni non riesce a capire che Don Diego De la Vega è Zorro’. Furono 2000 i retweet. A chi mi obiettava che Zorro era ambientato in California dovetti spiegare che si trattava sì della California, ma durante il dominio spagnolo. La domanda più strana invece me la fece un ragazzo che mi chiese: “Dio, ma qual è il tuo primo ricordo? Essendo eterno come fai ad averne uno?”.
Progetti per il futuro, visto che anche quello è eterno?
Sto scrivendo un libro che spero uscirà presto. L’altro mio libro, scritto insieme al mio dirimpettaio, ‘Il Diavolo’ (anche lui su Twitter), ‘Iddiozie e diavolerie’, una raccolta delle nostre migliori battute il cui devoluto serve alla ricostruzione di una scuola in Emilia, non ha avuto il successo che speravo. La gente non ha fiducia, neanche se ci metti la faccia, come ho fatto io. È forse questo il danno culturale peggiore dell’Italia: la fiducia di un popolo compromessa.