Parlare di controinformazione e di giornalismo investigativo significa riflettere su un passato importante del giornalismo italiano ma anche sul suo futuro. Due forme di comunicazione che in tempi non troppo lontani “sono state il termometro che con efficacia ‘ha misurato la febbre’ del nostro Paese” (Controinformazione, Massimo Veneziani).
E c’è una data precisa, un momento esatto, in cui il modo di fare informazione cambiò per sempre volto: è il 1968. Un anno-spartiacque tra due modi differenti di fare informazione antagonista: prima c’era “il Mondo” di Mario Pannunzio con le sue inchieste sull’abusivismo edilizio e gli attacchi al sistema democristiano; poi ci saranno le battaglie sociali, come quella per il divorzio nel 1974, le lotte operaie, le inchieste sulle “trame nere” e sul coinvolgimento di apparati dello Stato nelle vicende stragiste che hanno violentato il nostro Paese.
Ma a cambiare non furono solo i contenuti, cambiò anche la tecnica dell’inchiesta, con la perdita di fiducia nei confronti delle fonti istituzionali, delle notizie velinarie, con la classe politica che iniziò ad essere criticata senza troppa riverenza. Paradossalmente, però, questo nuovo giornalismo, se si vuole figlio dei movimenti sessantottini, si ritrovò a subirne le degenerazioni terroristiche e l’attacco alla stampa venne visto come il tentativo di colpire una struttura portante dell’intero sistema capitalistico. Molti giornalisti, infatti, pagarono con la vita l’essere stati contro-informatori.
Nell’arco di un ventennio, dalla fine degli anni ’60 ai primi anni ’90, il giornalismo d’inchiesta visse una sorta di parabola esistenziale. Dalla militanza della controinformazione a ridosso di avvenimenti come Piazza Fontana e il rogo di Primavalle, al periodo delle grandi inchieste degli anni’80, prima fra tutte Ustica, per degenerare poi con Tangentopoli, in cui il meccanismo perverso dell’informazione spettacolo trasformò imputati in colpevoli prima ancora di un giudizio definitivo.
E oggi è ancora possibile un giornalismo d’inchiesta coraggioso e militante come quello di trent’anni fa? Risponde Paolo Ojetti, giornalista del Fatto Quotidiano e docente all’Ifg di Urbino. Forse “non ci sono le condizioni politiche favorevoli”, oppure “c’è un’altra amara verità: un’inchiesta fa vendere di più? Non sempre”.
Come ha vissuto o percepito lei questa evoluzione del giornalismo d’inchiesta?
Tangentopoli? Non vedo degenerazioni particolari. Certo, ci furono errori, ma i giornalisti seguirono indagini, procedimenti e processi soprattutto come parti di un unico e sorprendente ‘fenomeno’. Ci furono episodi spiacevoli, come il suicidio del socialista Moroni e di Cagliari. In tutti e due i casi il suicidio apparve come reazione sproporzionata. Oggi come oggi non si suiciderebbe nessuno. Cambiati i tempi, è cambiata anche l’etica dell’onore personale. Poi, diciamoci la verità, noi giornalisti venivamo da un periodo eccezionalmente oscuro: si era davvero ‘suicidato’ Sindona? Si era davvero impiccato da solo, di notte e con alcuni mattoni in tasca , Roberto Calvi? Insomma, eravamo molto scettici anche di fronte alla verità.
Perché, dopo un decennio di militanza, la controinformazione sparisce negli anni ’80?
Sparisce proprio perché la riforma della procedura penale aveva – diciamo – aperto all’informazione le istruttorie dopo l’iscrizione al registro degli indagati. In quel momento, gli avvocati venivano coinvolti nella fase d’indagine e, dunque, sia la difesa che le parti civili potevano passare notizie alla stampa. Con la richiesta di rinvio a giudizio, i fascicoli e la trascrizione delle intercettazioni depositate sono a disposizione di chiunque e – inutile dirlo – anche se la richiesta di rinvio non è una condanna, la cronaca può persino avanzare congetture, ipotesi. Abbiamo visto i processi anticipati nei talk show, con ospiti che parlano spesso a vanvera: ci meravigliamo ancora di un articolo scritto da un cronista di giudiziaria che certamente ne sa più del criminologo a gettone o – nel caso di vicende politico-giudiziarie – dell’amico del politico indagato? Controinformazione, dicevamo. Beh, è diventata inutile. I grandi ‘misteri’ di Italia sono al momento esauriti. Se ci occupiamo di malasanità, corruzione politica, vicende di camorra e mafia, non stiamo più facendo controinformazione, ma informazione pura e semplice.
Agli inizi degli anni ’90 la carta stampata sentiva già la crescente rivalità della televisione, allora perché non sfruttare un’occasione come Tangentopoli per riaffermare la qualità, in particolare del giornalismo d’inchiesta, anziché limitarsi alla ‘caccia al verbale d’interrogatorio’, riducendosi così a semplice spettatore degli eventi?
Non è del tutto vero che ci si limiti alla ‘caccia’ ai verbali. Ancora adesso esistono le inchieste. Solo che si è ristretto il campo ai fenomeni di corruzione. Mi viene in mente il caso Formigoni, la parentopoli di Alemanno, gli innumerevoli casi di malasanità, le case a sua insaputa di Scajola. L’ultima vera controinformazione si è vista per la Diaz nel 2001. Ecco, il potere poliziesco voleva rifilare all’opinione pubblica la falsa molotov, i pestaggi come inevitabile reazione alle violenze. E invece sono state le migliori giornate del giornalismo nazionale, di tutte le tendenze, a eccezione di tre testate e tutte di destra: il Giornale, Libero, il Foglio che presero subito per buone le versioni ufficiali.
La controinformazione è stata un fenomeno circoscritto agli anni ’70, ma ha influito notevolmente nel modo di fare inchiesta imponendo un approccio spregiudicato nella ricerca delle notizie e nel rapporto con le fonti. Oggi, invece, in alcuni casi sembra che editori, direttori e giornalisti si accontentino della superficie delle notizie senza voler andare in profondità. Si fa sempre meno giornalismo d’inchiesta. Perché?
È vero, si fa meno giornalismo di inchiesta. I giornali sono diventati macchine che occupano i giornalisti più al desk che a caccia di notizie. È il momento dei free lance, aspetto difficilissimo del mestiere. Ci vogliono coraggio, iniziativa, non si hanno le spalle coperte da una testata, si rischia molto e non è facile ‘vendere’ storie, soprattutto se toccano i poteri costituiti. Pubblicare vuol dire avere totale fiducia nel free lance ed essere disposti a difenderne l’operato fino in fondo. Non tutti gli editori vogliono correre questi rischi. E poi c’è un’altra amara verità: un’inchiesta fa vendere di più? Non sempre. Purtroppo vendono più le ‘confessioni’ di zio Michele a favore di telecamera che le mazzette della cricca per il terremoto dell’Aquila.
È possibile prevedere un’evoluzione del giornalismo investigativo nei prossimi anni?
Tutto cambia, ma nessuno sa in che modo. Non sono favorevoli nemmeno le condizioni politiche. Una opposizione ‘alla Grillo’ non porta controinformazione, non fa venire a galla verità nascoste o oscure complicità. È un’opposizione di chiacchiere e non di fatti, di battute e non di vere denunce. Dopo aver attraversato tanti anni di giornalismo e aver seguito per anni la strage di Piazza Fontana, i misteri del sequestro Moro, Sindona, il caso Pecorelli, lo Ior e Calvi, la P2, il fallito golpe Borghese, lo scandalo dei finanziamenti occulti ai partiti elargiti dai petrolieri degli anni ’70, l’Enimont, lo stragismo degli anni ’80 e ‘90, i legami fra i servizi segreti del Viminale e il terrorismo nero di Delle Chiaie, sono arrivato alla conclusione che se qualche verità è venuta a galla, è arrivata talmente in ritardo e talmente sfilacciata da aver perduto, strada facendo, tutto il suo potenziale. Insomma, mi sembra sia stato un lungo lavoro, faticoso, da ricordare con orgoglio, ma del tutto inutile.