Nella Siria dilaniata dalla guerra civile, i cecchini si appostano per giorni nei palazzi delle città distrutte: restano immobili e guardano fuori attraverso piccoli fori di proiettile, le uniche ‘finestre’ che riescono a far passare sottili fasci di luce. Nelle strade è molto forte l’odore di morte e tra le macerie delle case, smembrate dalla guerriglia e dai bombardamenti del regime, il rosso del sangue rattrappito si mischia alla polvere. Solo gli scatti dei fotoreporter e dei video-operatori immortalano attimi e persone che rischiano di svanire nel nulla, protagonisti di storie troppo facili da dimenticare.
SCHEDA La Siria non è un paese per reporter
Narciso Contreras è uno dei giornalisti che sono scesi nell’inferno siriano e sono riusciti a tornare: negli ultimi 3 anni sono stati uccisi ben 44 reporter, come testimoniato dal Comitato per la protezione dei giornalisti, che sul suo sito aggiorna costantemente il numero delle vittime. quest’anno, Contreras, è stato insignito del premio Pulitzer nella categoria Breaking news photography, insieme ad altri quattro colleghi che lavorano per l’Associated Press (Rodrigo Abd, Manu Brabo, Khalil Hamra e Muhammed Muheisen) per aver “coperto in modo eccellente la guerra civile in Siria, producendo immagini memorabili in condizioni di pericolo estremo”.
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Il fotoreporter non è un soldato, è un uomo che racconta storie, partecipe e spettatore al tempo stesso degli eventi. Ma anche se il ruolo del giornalista non è ‘fare la guerra’, deve comunque prepararsi nel modo più preciso possibile, in modo da ridurre al minimo i rischi.
Come ti prepari prima di entrare in un’area pericolosa?
Esamino la situazione il più attentamente possibile: studio l’area che dovrò coprire, chi troverò sul territorio; leggo tutte le informazioni reperibili e individuo le vie d’accesso. Poi traccio il percorso da seguire con i miei colleghi e preparo mappa, l’equipaggiamento fotografico, quello di sicurezza e quello di primo soccorso. Una delle cose più importanti di cui tenere conto prima di entrare in una zona pericolosa sono le parti coinvolte: bisogna conoscere il loro backgound e gli sviluppi delle dinamiche interne. Però, d’altra parte, evito il più possibile di farmi dei pregiudizi.
Cosa ti spinge a rischiare la vita per questo lavoro?
Personalmente non rischio la vita per questo lavoro, non è questo il senso in cui intendo la mia occupazione. Sono un fotografo, non sono né un fotografo di guerra né mi piace avere altre etichette simili. La fotografia è il modo a me più congeniale di intendere la comunicazione, il mio modo di relazionarmi con i soggetti ai quali sono interessato. Io credo che la fotografia sia un modo per essere testimoni delle tragedie umane, per documentarle e per fare in modo che non cadano nell’oblio.
Come si può riassumere la tua esperienza in Siria?
La Siria è lo scenario in cui si stanno definendo gli equilibri del potere a livello mondiale. Noi siamo testimoni di un cambiamento di rotta spinto dall’alto, a costo di migliaia di vite umane. La tragedia siriana sta ridefinendo l’influenza dei Paesi occidentali e dei loro alleati arabi sul Medio oriente. La guerra in Siria è la guerra che definisce questo momento storico; è importante capire e documentare questo per quanto è possibile. La mia esperienza in Siria è stata rivelatrice e sono rimasto scioccato da quello che sto documentando.
Cosa provi a scattare fotografie nel mezzo di un conflitto?
Paura. il brivido di essere dentro la battaglia, in mezzo a un vero combattimento. Ma più riesci ad affrontare la paura, più sei in grado di sopportarla e di uscire vivo dalle situazioni pericolose.