PESARO – Sei passi, tre avanti e tre indietro. Solo sei passi durante il giorno, i mesi, gli anni che restano da scontare in carcere. Poco più di due metri da dividere con altre quattro e, in alcuni casi, perfino sei persone. Un trattamento inumano e degradante secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo che ieri ha condannato il nostro Paese per il sovraffollamento delle carceri. La casa circondariale di Pesaro non fa eccezione: la struttura, costruita nel 1989, è stata progettata per accogliere 176 detenuti. Attualmente ne ospita 293, 117 in più.
Il Ducato è entrato a Villa Fastiggi per vedere come vivono quelle 293 persone. Quando il grande cancello del carcere si chiude, si apre un mondo fatto di lunghi corridoi, di muri alti e di porte che sbarrano l’orizzonte. A tenere compagnia sono i ricordi di quello che si è lasciato al di là delle sbarre e il suono metallico delle chiavi nella serratura. Questa è la vita di Spartaco, Leonardo, Antonio detto Tony, Alfonso e degli altri detenuti del carcere. Eppure nonostante il sovraffollamento, la fila per fare la doccia, gli spazi ristretti che a volte tolgono l’aria, “la situazione è quasi accettabile”. A dirlo è Spartaco, che vive in questo carcere da due anni: “Sono stato in altri istituti penitenziari e qui si sta leggermente meglio”.
“Le celle sarebbero solo per una persona, invece poi hanno aggiunto le brande a castello e di fatto siamo in tre“, dice Tony, condannato per associazione a delinquere. “Una cella è di 9 metri quadri, compreso il bagno con un sanitario e un lavandino.Però durante tutta la giornata le porte sono aperte e questo aiuta molto”, continua Tony.
Secondo il rapporto dell’associazione Antigone, gli spazi comuni come la sala teatro-cappella, la biblioteca, le aule scolastiche sono insufficienti, sia come numero che come dimensioni. I problemi maggiori riguardano, però, la manutenzione. L’istituto, infatti, è stato coinvolto nello scandalo delle carceri d’oro: tangenti date ai politici in cambio degli appalti per la costruzione con materiali scadenti e poco sicuri degli istituti di pena.
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“Sono in carcere per droga. Ho scontato parte della pena a Poggio Reale. Poi per fortuna mi hanno trasferito qui”, racconta Alfonso che ha 30 anni e tre figli che lo aspettano a Napoli. Il più piccolo ha 6 anni. “Esci da Poggio Reale più delinquente di come sei entrato. Qui, invece, ti danno la possibilità di imparare un lavoro, di credere in te stesso”, dice Alfonso. Il progetto pedagogico del carcere prevede che i detenuti frequentino dei corsi formativi. Possono scegliere di seguire quello di ristorazione, di falegnameria, di giornalismo, di scrittura creativa, di teatro e perfino di clownweria. Alla fine di ogni laboratorio viene rilasciato un attestato. Non è solo un modo per passare il tempo: i detenuti imparano un vero lavoro in vista del loro reinserimento nella società. “Per il mio futuro tutto quello che voglio è avere un lavoro e cominciare una nuova vita con la mia famiglia che è la cosa che mi manca di più”, racconta Alfonso.
Amed, Rhida e Amir, tre ragazzi marocchini, nel carcere di Pesaro hanno imparato l’italiano: seguono il corso ogni settimana e leggono i libri che hanno a disposizione nella biblioteca. “Io lo so che quando uscirò da qui, mi porteranno in un centro di espulsione e mi rispediranno in Marocco”, dice con tristezza Amir. “Ho capito di aver sbagliato e ora voglio vivere e lavorare in Italia”.
Certo, anche nel carcere di Pesaro non sono mancati atti di autolesionismo e tentati suicidio. Una guardia penitenziaria racconta che spesso i detenuti ingoiano le batterie dalla radiolina o cercano di impiccarsi con le lenzuola. L’ultima suicidio risale al 2010.
Però tra i detenuti spicca soprattutto la consapevolezza di sé e del mondo fuori: “Chi non ha mai avuto problemi con la legge vive il detenuto come una sorta di mostro. Invece siamo persone anche noi. Sì certo, abbiamo degli errori alle spalle, ma ci stiamo impegnando per cercare di rimettersi in riga – afferma Spartaco – quello che desideriamo è che, a seguito del nostro impegno, vengano fatte delle valutazioni diverse su di noi quando usciremo di qui”.