URBINO – Su quella casa “posta in la cità di Urbino in la quatra de la posterla appresso le vie da tre lati e la casa degli eredi di mastro Agnolo” aveva diritto Urbano di ser Vanne, al quale fu strappata dal conte Ugolino Baldi che la tenne per 27 anni. Ma il 16 maggio 1421 una sentenza condannò il Bandi a risarcire la parte lesa con 275 ducati e la lite terminò definitivamente nel 1438 con altri 315 ducati ceduti a Urbano di ser Vanne dal Baldi, che mantenne il possesso pacifico della casa e del vicino terreno ortivo presso le mura cittadine.
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Con queste vicende iniziarono le trasformazioni dell’attuale Palazzo Passionei-Paciotti: appartenuto a più famiglie nobiliari, divenne orfanotrofio femminile nel 1842 e fu acquistato dall’Università degli studi di Urbino il 26 giugno 1972. Oggi è sede della biblioteca dedicata a Carlo Bo, il rettore più longevo a cui l’università fu intitolata nel 2003.
Dove oggi si assiepano studenti, libri e docenti, brulicano gli accenti e i dialetti italiani più disparati accanto alle lingue straniere, la cultura rinascimentale urbinate aveva trovato la sua culla e praticato i suoi interessi. Le sedi universitarie sono spesso palazzi storici, pareti tra cui è scorso il sangue blu dei duchi e quello ecclesiastico delle confraternite religiose.
Palazzo Bonaventura, il cui grande stemma in pietra sopra il portone d’ingresso è dedicato a Nicolò di Federico Novello Montefeltro e alla moglie Orlandina di Armanno Brancaleoni, apparteneva certamente alla famiglia ducale nel 1300. Passato poi ai Bonaventura per 2200 fiorini versati in contanti, fu acquistato dall’università il 12 marzo 1834 al prezzo di 2.977 scudi romani. Oggi ospita il Rettorato.
Fiorini, bolognini e scudi romani sono diventati banconote dell’Unione Europea, le cifre sono lievitate ma gli atti di compravendita della Carlo Bo si sono secolarmente mantenuti. Non invecchia l’attività finanziaria dell’università urbinate che, negli ultimi dieci anni, è stata coinvolta in 22 operazioni tra vendite, acquisti, cessioni e ipoteche.
Lo psicologo, scrittore e archeologo italiano Gabriele Mandel Khan volle festeggiare le 500 candeline che la Carlo Bo spense nel 2006 ricordando come cinque secoli di insegnamento equivalgono a “cinque secoli di luce e una miriade di stelle”. L’insegnamento è luce e l’università è il folle uomo nietzschiano che accende la sua lanterna nella calda luce del mercato mattutino. Un surplus di luce, come quello che l’università ha sempre dovuto infondere nei suoi studenti e che a Urbino si carica di una valenza ancor più evocativa.
“Sovra il non aspro giogo, onde si sente il Metauro mugghiar, dolce mio nido Urbin siede eminente”: la Urbino del poeta e matematico Bernardino Baldi, e non solo, è una città accoccolata su un dirupo, arroccata perché ideale. Carlo Bo, spesso criticato per il suo tratto utopico ed elitario, era fiero di un nucleo distante dal brusio di autostrade, stazioni e aeroporti. Quelli che il sociologo Marc Augé definiva non-luoghi erano (e sono) tenuti a distanza dalla città di Raffaello, dalla città in cui la luce del Rinascimento matematico si mescola a quella rossa dei mattoni bruciati. L’università è luce, è un distributore di sapere e un signore togato che istruisce noi lillipuziani venuti da lontano.
La Carlo Bo è profumo di storia, è imboccare il vicolo di Sant’Agostino scendendo via Saffi, bussare a un piccolo portale d’ingresso con lo stemma di papa Sisto IV Della Rovere e scoprire che dove vivevano gli agostiniani e poi i bambini dell’orfanotrofio voluto dall’arcivescovo Alessandro Angeloni oggi transitano studenti di giurisprudenza. È scoprire che Palazzo Veterani, attualmente sede degli studi di filologia moderna, linguistica e civiltà antiche, si trova in una via omonima che dal XV al XVII secolo era detta “androne dei giudei”, a causa delle varie famiglie israelitiche che vi abitavano. Perché l’università non è solo “in” Urbino, come vuole il dialetto della zona, ma è Urbino. È una ramificazione vestita dalla eredità delle casate nobiliari, dove ogni pezzo racconta una fetta del passato e il mosaico che ne deriva è la storia della città ideale.
Ideale, ma anche materiale. Perché la Carlo Bo è sempre stata e continua a essere un business, una macchina guidata da manovre imprenditoriali. L’università è un’azienda che in soli tre anni, dal 1971 al 1974, fece quindici acquisti di beni mobili e immobili e che sempre in tre anni, dal 1968 al 1970, incassò i guadagni di quindici vendite.
Negli ultimi dieci anni la quantità di attività si è ridotta, a differenza delle somme in ballo. Gli esempi più significativi riguardano la compravendita di edifici e terreni e le ipoteche. Nel 2008 il collegio Tridente fu venduto alla Regione Marche per un importo di 14.500.000 euro, mentre tre anni prima l’università aveva acquistato Palazzo Albani per 3.718.489,67 euro.
I dati registrati presso l’Ufficio provinciale di Pesaro-Urbino dell’Agenzia delle entrate dimostrano come la Carlo Bo sia stata protagonista, negli ultimi dieci anni, di altri grandi atti di compravendita e abbia sottoscritto due ipoteche volontarie. Nel 2004, dopo un mutuo concessole dalla Banca delle Marche, ipotecò per 20 anni e per un valore complessivo di 64 milioni di euro sette beni immobili, ossia scuole e laboratori scientifici. Un’ipoteca che l’università non ha ancora estinto, come quella da 5.410.500 euro del 2011, fissata a seguito di una concessione a garanzia di finanziamento da parte della Cassa depositi e prestiti. Quest’ultima ipoteca è stata creata su dei terreni posseduti a Urbino, mentre alcuni di quelli che l’università ha nel comune di Fermignano, per un totale di 5123 metri quadrati, sono stati venduti nel 2003 alla Catani Costruzioni S.r.l. al prezzo di 261.000 euro.