Laura Gardini, coordinatrice della facoltà di economia di Urbino, si divide tutti i giorni tra famiglia e università: tiene un corso di Matematica Finanziaria, fa ricerca in modelli dinamici applicati alla finanza e trova anche il tempo di fare la mamma di Martino insieme al marito Renzo.
Un ‘doppio lavoro’ non da poco, che spesso porta via alcune ore di sonno. “Tutto dipende dalla passione e dalla voglia che una persona ci mette nella ricerca” dice la dottoressa Gardini, che ci ha raccontato il suo punto di vista sulla situazione delle donne nel mondo accademico.
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Rispetto al passato, per una donna è più facile o difficile entrare nel mondo dell’università?
“Ultimamente c’è stato un grande progresso per quanto riguarda questo tema: ora l’entrata si basa su concorsi a livello nazionale e il sesso conta ben poco. Quello che serve sono la preparazione, il curriculum, l’attività di ricerca svolta, le collaborazioni con altri istituti… sotto questo aspetto l’Università è avanti”.
Quindi anche nella carriera?
“Dipende. Bisogna distinguere l’attività di ricerca nel proprio settore dalle attività istituzionali in cui occorre saper dimostrare le proprie capacità organizzative; forse nel secondo campo ci sono ancora un po’ di discriminazioni. Le donne devono dimostrare di saper fare di più in campo gestionale. Diverso il discorso sull’attività di ricerca: è un mondo più oggettivo in cui contano i risultati”.
Però nel mondo della ricerca italiano, secondo i dati della commissione europea, le donne sono ancora poco più del 30%.
“Questo è dovuto al fatto che l’ingresso nella ricerca è diventato più complicato per i giovani: ora non esistono più ricercatori a tempo indeterminato; è diventato un lavoro precario. In questo contesto le donne sono più svantaggiate perché se vogliono fare figli sono costrette a rallentare le ricerche e quindi la produzione. In certe famiglie diventa una situazione insostenibile”.
Come si concilia vita e lavoro?
“Come in tutti i lavori ci sono tempi dedicati alla famiglia e all’attività lavorativa. In questo caso però la ricerca porta via molte ore notturne. Tutto dipende dall’intensità e dalla passione con cui si svolge la propria attività: molto del lavoro non è svolto in ufficio, ma a casa, dove si studia e ci si tiene aggiornati. La ricerca non è come un lavoro che si porta avanti solo nelle ore d’ufficio. Insomma, non si smette mai”.
Ci sono delle facoltà che vengono considerate appannaggio degli uomini o delle donne?
“Sì, ci sono diverse facoltà come informatica e ingegneria dove c’è una predominanza di iscrizioni maschili, ma penso che questo sia dovuto più al lavoro in sé che alla preparazione che quel tipo di corsi offre. C’è ancora una maggioranza femminile invece nelle facoltà di tipo letterario, di fisica e di biologia. Forse perché danno più possibilità di diventare professori. Le donne magari hanno una propensione più forte all’insegnamento, mentre i ragazzi pensano di più all’attività professionale. La facoltà di economia ora invece è divisa equamente. Anzi, ci sono un po’ più di ragazze”.
Prima non c’era una netta maggioranza di maschi? Cos’è cambiato?
“È cambiata l’imprenditoria femminile. Una volta era un’attività da uomo, mentre adesso ci sono un sacco di donne che si sta avvicinando a questo mondo con passione, cercando di conciliare tutto. È un cambiamento iniziato più o meno nel 2000, che ha avuto un aumento progressivo in tutto il Paese. Da noi, nelle Marche, questo si è sentito molto”.
Che differenza c’è con il resto dell’Europa?
“L’estero è sicuramente più avanti da questo punto di vista. Lì le donne hanno acquisito dei diritti che in Italia ancora non ci sono. Servono ancora progressi. In Italia, ad esempio, la maternità costringe ad abbandonare la ricerca per un anno o due. Nei Paesi nordici è un’altra cosa, ci sono delle forme di sostegno alle donne che permettono di non essere costretti a scegliere tra famiglia e lavoro. In Italia servirebbe una legislazione diversa che venga incontro alle donne per quanto riguarda la maternità e il reinserimento nel mondo del lavoro”.
Secondo lei cosa si dovrebbe fare?
“Basterebbe copiare i Paesi nordici. Nel mondo accademico, in caso di maternità, lo stipendio non dovrebbe essere azzerato e i contratti non dovrebbero essere annullati, ma solo congelati dopo un periodo di stop definito in base alle necessità personali. Ma nel mondo delle aziende la situazione è anche peggiore. Per quanto riguarda il futuro, però, sono molto ottimista: penso che le cose miglioreranno”.