URBINO – Ilaria Cucchi crede ancora nella giustizia italiana. “Mi aspetto che dimostri di essere davvero giusta e uguale per tutti. E che sia capace, per una volta, anche di giudicare se stessa”, ha affermato la sorella di Stefano Cucchi, 31 anni, romano, morto nel 2009 all’ospedale Pertini di Roma mentre era in stato di arresto per droga. Ilaria Cucchi ha parlato agli studenti dell’Università di Urbino martedì 17 marzo, nel primo dei due giorni di incontri organizzati dall’Ateneo e intitolati Lo Stato irresponsabile, il caso Cucchi. In un’intervista al Ducato, la donna ha ripercorso i momenti di sofferenza vissuti in ospedale una volta scoperta la morte del fratello e ha parlato delle difficili fasi di un iter processuale non ancora terminato. Dopo l’assoluzione in appello per i sei medici condannati in primo grado per l’omicidio colposo del giovane, si attende una pronuncia della Cassazione. Introdurre il reato di tortura nell’ordinamento italiano “può essere un primo passo” per migliorare la giustizia.
Qual è l’importanza di ricordare Stefano di fronte a un pubblico di studenti?
“Credo sia la cosa più importante che io possa fare in questo momento. Si tratta di parlare di mio fratello e di raccontare la sua storia ai giovani, quindi a delle persone che hanno il futuro nelle loro mani e che hanno la possibilità di cambiare questa società e tutto ciò che di sbagliato c’è in essa”.
In primo grado i medici sono stati condannati, in secondo grado tutti assolti. Ora arriva la Cassazione, ma c’è il rischio che intervenga la prescrizione. Quali sono le vostre prossime mosse legali?
“La prescrizione arriverà a ottobre considerando che per la morte di mio fratello si continua a parlare di lesioni lievi. Noi andremo avanti comunque. Sono certa che non sia finita qui. E’ vero che ci sono due sentenze che hanno portato a delle assoluzioni, ma queste riconoscono ciò che per cinque anni si è voluto negare: quel pestaggio”.
Cosa chiede alla giustizia italiana? E soprattutto, crede ancora nella giustizia?
“Se non ci credessi, non continuerei a essere in quelle aule, dove, ve lo assicuro, si vive ogni volta un dolore enorme. Per le nostre famiglie essere lì è un enorme sacrificio. Il più delle volte assistiamo a dei processi alle vittime: un massacro della memoria, del ricordo e della dignità dei nostri cari. Dalla giustizia mi aspetto che dimostri di essere davvero giusta e uguale per tutti. E che sia capace, per una volta, anche di giudicare se stessa”.
Tenere vivo il ricordo di suo fratello come può migliorare la giustizia italiana? Potrebbe essere importante introdurre il reato di tortura?
“Questo potrebbe essere un primo passo. Se mi guardo indietro, non posso non ricordare la sofferenza che abbiamo avuto. Siamo partiti da un certificato di morte naturale, dal decesso di mio fratello che ci veniva comunicato con un decreto di autopsia e dall’immagine di quel corpo martoriato che avevo davanti agli occhi. Lui era dietro a una teca e non potevo neanche toccarlo. In quel momento, mi sono sentita sola e totalmente disarmata. Non riuscivo a capire nulla, ero frastornata. L’unica cosa che mi sembrava evidente era che nessuna di quelle persone, che avrebbero dovuto prendersi cura di mio fratello, lo aveva fatto. E che nessuno di quelli che avevo davanti a me era disposto a darmi delle risposte. Così ho capito che dovevo rimboccarmi le maniche e trovarle da sola. Da allora, di passi in avanti ne sono stati fatti moltissimi. Oggi la verità su quello che è accaduto a mio fratello viene riconosciuta. Credo che una parte del merito vada anche a tutti coloro che hanno tenuto viva l’attenzione. Parlo dei mezzi di informazione, ma anche delle persone comuni. Quelli che ci hanno seguiti e che hanno fatto in modo che non scendesse il silenzio. Perché il silenzio è la più grande arma che ha chi punta a non darci nessuna risposta”.