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Tante spese e zero garanzie: la vita dei freelance italiani

di e    -    Pubblicato il 16/04/2015                 
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Il giornalista freelance Alessandro Di Maio

Il giornalista freelance Alessandro Di Maio

PERUGIA – Duecento euro per prendere un taxi, quasi 2mila per autista, traduttore e altri servizi, di fronte alla prospettiva di guadagnarne 50. Essere un giornalista freelance oggi non è facile, ma spesso è una scelta obbligata. Molte testate italiane sono in crisi, non offrono contratti e non finanziano reportage all’estero. Non resta che raccontare storie in modo indipendente e poi venderle ai media.

E’ quello che fanno Gabriele Micalizzi, fotografo milanese, e Alessandro Di Maio, giornalista freelance siciliano che hanno partecipato al convegno “Vita da freelance” il 16 aprile al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia.

“I freelance sono lasciati da soli – spiega Micalizzi fotoreporter di guerra – con i media italiani funziona così: prima realizzi le foto e poi le vendi, alcuni giornali esteri ti fanno firmare un contratto prima e a volte anticipano dei soldi”. Ma anche i media esteri non vogliono prendersi responsabilità: “A volte decidono di non pubblicare fotografie da zone di guerra come la Siria, per non incoraggiare giornalisti a partire e rischiare. Anche questo è sbagliato”.

Ma i giornalisti freelance sono poco tutelati anche dal punto di vista giuridico: “Dobbiamo fare molta attenzione perché siamo direttamente responsabili di ciò che scriviamo – spiega Alessandro – Quando ho iniziato in Sicilia mi occupavo di cronaca locale e avevo paura di essere denunciato per qualche motivo, anche perché scrivevo di mafia. Ho sempre cercato di essere il più neutrale possibile, di non dare giudizi, cosa che spesso accade”. E riguardo la copertura assicurativa, le cose non vanno meglio: “Essere assicurati è fondamentale – conclude il giornalista – tre anni fa a Gerusalemme ho fatto una copertura sanitaria privata che dovevo rinnovare ogni tre mesi. Sfortunatamente ho avuto una colica renale proprio nel periodo del rinnovo, e il costo della notte in ospedale è stato enorme”.

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Alessandro Di Maio, che da Gerusalemme collabora con Libero e Il Fatto Quotidiano, racconta che “i problemi del freelance sono tre: la grande competizione, lo sfruttamento dei giornalisti da parte delle testate e la crisi mediatica italiana.

Io amo il giornalismo, ma in questa maniera è veramente difficile”. Alessandro ha iniziato giovanissimo a collaborare in Sicilia con alcune testate locali, occupandosi di cronaca e di mafia. “Non mi pagavano, così mi sono trasferito a Gerusalemme, mi sono iscritto all’università e ho iniziato a collaborare con un giornale Canadese. Con i media italiani all’inizio è stato difficile trovare collaborazioni, poi c’è stata la Primavera araba, ed è aumentato l’interesse per le questioni mediorientali.”

Per Gabriele, che lavora per il New York Times e il Corriere della Sera, il lavoro del giornalista freelance deve essere una passione: “E’ difficile, ma nessuno ci obbliga a farlo, si corrono dei rischi, bisogna meritarselo. E’ vero, c’è tanta competizione, ma così emergono i lavori di qualità”. Gabriele ha iniziato a fare il freelance per caso, ma poi la sua è diventata una scelta: “Non lavorerei mai per un agenzia di stampa, devi produrre foto standard, coprire gli eventi che ti dicono loro, non hai libertà. A me piace dare un taglio d’autore e una prospettiva personale alle mie foto e questo è quello che me le fa vendere ai giornali”.

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Alessandro racconta che facendo il freelance conosce tanta gente nuova, viaggia, impara le lingue. “Ma è una vita che si può fare solo per un periodo, per come funziona il giornalismo in Italia”. Nel nostro paese i freelance vengono pagati poco: “I giornali esteri pagano dieci volte di più. Ma non è solo una questione economica. Le nostre testate non forniscono press card, non ti seguono nel lavoro sul campo, non offrono garanzie. I giornali chiedono articoli di cronaca, non storie o reportage. Sono pubblicista, lavoro come analista politico dei giornali del mondo arabo per una azianda privata e quando ho tempo libero e i soldi necessari parto e mi dedico a raccontare storie”.

La passione di chi fa il giornalista di guerra è tanta ma ci sono testate che se ne approfittano. “Devi continuamente negoziare- racconta Gabriele- ma è importante non svendersi mai, proporre un prodotto di qualità e pretendere di essere pagati in modo giusto. Io mi dico: il mio è ‘made in Italy’, quindi se un cliente lo vuole, deve pagare”. Ci sono però tante testate che promettono di pagare e poi dopo qualche anno falliscono, per poi rimettersi sul mercato con lo stesso nome. Tutte le collaborazioni effettuate nel periodo precedente la bancarotta decadono. “A me questo scherzetto l’ha fatto una rivista scientifica- racconta Alessandro- ha preso alcune mie foto ma al momento del pagamento non si sono più fatti vivi, salvo poi scoprire che era fallita e rinata magicamente.”

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