URBINO – Gli ingredienti per scrivere (bene) di cibo sono competenza, curiosità, un pizzico di talento in cucina. E un altro mestiere in grado di compensare le scarse entrate economiche. La cultura alimentare, così radicata nel nostro Paese, non sempre riesce a tradursi in informazione di qualità. Così sono spesso gli altri Paesi a darci lezioni.
Ma esiste ancora il critico gastronomico? Come e dove si comunica il cibo? Lo abbiamo chiesto alla food writer Elisia Menduni, ospite del Festival del giornalismo Culturale di Urbino.
A proposito di “altri mestieri”, Menduni oltre a scrivere di cibo è antropologa, giornalista fotografa e videomaker. Ha lavorato a Gambero Rosso Channel e ha scritto per la guida Ristoranti d’Italia. Collabora con numerose riviste del settore come fotografa e giornalista: Fool, Cook Ink, Food and Wine. Il suo ultimo libro si intitola “Sicilia. La cucina di casa planeta”.
Quando si parla di giornalismo gastronomico tanti pensano ai blog di ricette. Per scrivere di ricette serve un giornalista?
Scrivere ricette lo può fare chiunque, anzi spesso l’appassionato di cucina che passa tanto tempo ai fornelli le racconta meglio del giornalista che sta in redazione. Il giornalista non serve per raccontare la cucina, ma per raccontare il cibo e le storie che stanno dietro un piatto.
Cos’è il giornalismo enogastronomico?
Dietro a un piatto ci sono un sacco di storie: il racconto del giornalista deve far capire, informare e approfondire. Deve anche essere utile: dare il numero di telefono, la fascia di prezzo e l’indirizzo per trovare posti dove fare delle esperienze gastronomiche interessanti.
L’Italia è un paese molto rinomato per la sua tradizione gastronomica, a che punto siamo con il giornalismo che si occupa di cibo?
Faccio la critica gastronomica quindi sono critica di natura. La vera critica gastronomica in Italia non esiste più. Non c’è un sistema editoriale che te lo permette. Sono pochissime le testate che ti danno spazio e che ti garantiscono un rimborso pieno per andare in ristoranti importanti. Noi food writer in Italia abbiamo tutti un altro lavoro: io faccio video, foto, riguardano sempre l’universo del cibo, ma non è giornalismo. Non potrei arrivare a fine mese facendo affidamento solo sulle collaborazioni gastronomiche. Quest’anno avevamo un’occasione per comunicare il cibo, Expo, e non l’abbiamo sfruttata. Da noi non c’è un approccio di racconto al cibo. Io collaboro con media francesi e inglesi che vengono a girare documentari sul cibo per Arte per la Bbc e che raccontano la cultura gastronomica italiana. Noi non lo facciamo. Siamo molto indietro.
Tra carta stampata, web, radio, tv, qual è il media migliore per parlare di cibo?
Il web. E’ il media più completo. Puoi inserire suoni, musica, video, foto, testi e link che permettono al lettore di approfondire navigando su altre testate o su blog. Le grandi firme di questo settore si fanno strada partendo da blog indipendenti e poi vengono chiamate a scrivere per le grandi testate. E’ anche vero che il web gastronomico negli ultimi anni si è talmente moltiplicato che c’è una grande confusione tra il critico professionista che si occupa di raccontare il cibo in maniera professionale e chi invece fa una recensione di cucina sul suo blog.
Qual è invece il media meno sfruttato?
La radio. In Italia ci sono due tre programmi interessanti, ma la radio, e ancora di più i podcast, hanno un potenziale enorme. I social americani ce lo stanno raccontando: negli States i podcast che parlano di cibo vanno benissimo. Io ascolto solo quelli: raccontano il cibo in modo sperimentale, con i suoni e i racconti. Con la radio è vero che si perde l’immagine, ma si guadagna in “storie”. Il cibo può essere raccontato in tanti modi e la radio, raccontandoti la storia, ti permette di capire cosa c’è davvero dietro un formaggio, al di là della forma. La foto di un cibo invitante innesca una reazione positiva in chi la guarda, la radio però approfondisce e stimola l’immaginazione.
Quali competenze servono a chi deve scrivere di cibo?
Non esistono manuali per diventare critico o giornalista enogastronomico. E’ un mestiere un po’ marginale. Io ho iniziato come degustatrice di formaggio e sommelier. Ho fatto tanti master sul cibo. Per raccontare il cibo non basta saper scrivere bene. Bisogna anzitutto saper riconoscere la qualità. La cosa su cui coltivo di più la mia professionalità è la preservazione del mio palato, su cui, se potessi e avessi qualche euro in più, mi farei un’assicurazione perché mi garantisce di distinguere sfumature e narrare il cibo in un modo che va oltre la descrizione di un assaggio. La prima cosa è sviluppare il palato e il proprio gusto. Poi bisogna dare nelle grandi tavole nel mondo. Io vado in media in 100-150 ristoranti l’anno, da vent’anni. Questo ti permette di vedere l’evoluzione degli chef e della cucina di un luogo. Anche la letteratura aiuta: ci sono tanti libri da leggere per accrescere la propria cultura gastronomica. E poi aggiungerei il saper cucinare. La mia passione per il cibo nasce dalla passione di cucinare. Secondo me chi sa cucinare ha una predisposizione maggiore alla comprensione di un piatto.
Ci sono delle tecniche per raccontare di cibo?
Consiglierei di trovare delle buone letture prima di ogni viaggio e prima di ogni ristorante. Bisognerebbe passare molto tempo a parlare con lo chef e con il personale nei vari ristoranti. Spesso infatti gli chef sono molto bravi a raccontarsi, ma anche a nascondere delle cose. Poi bisogna guardare cosa succede all’estero. La comunicazione food in Italia è molto indietro. Bisogna aggiornarsi sui blog e sulle testate soprattutto francesi, americane, spagnole e del mondo scandinavo, che ultimamente sta raccontando molto bene il cibo. Il governo danese sta finanziando massicciamente tutte le iniziative gastronomiche, quindi stanno nascendo tante riviste nuove. C’è il Mad camp, un evento unico per i comunicatori di cibo, è un festival in una tenda da circo su un’isoletta sperduta davanti a Copenhagen dove tutti i grandi media e giornalisti del mondo di food si riuniscono e si confrontano.