Giornalisti minacciati: nel 2017 sono 117. Lazio maglia nera. Nelle Marche tre, più del 2016

di MATTEO MARIA MUNNO

URBINO – “Il giornalismo è una cosa pericolosa”: Can Dundar, ex editorialista di Cumhuriyet – uno dei quotidiani più diffusi in Turchia – ha risposto così alle domande del Ducato in merito alla sua situazione di esule volontario lontano dal regime di Erdogan. Secondo i dati di Rsf, è la Turchia il luogo più pericoloso per essere un giornalista: l’Italia, nello stesso rapporto, ha ‘guadagnato’ 25 posizioni, raggiungendo la posizione 52. Fare il giornalista sulla penisola, però, non è ancora sempre ‘sicuro’, non dappertutto: nel 2016 sono stati 412 gli episodi di minacce nei confronti della stampa e il contatore di quest’anno – a cura di Ossigeno per l’informazione – è fermo a 117. Quali sono i posti più pericolosi per fare il giornalista in Italia? E che rischi corrono i giornalisti?

I numeri

Secondo i dati aggiornati la regione in cui si contano più minacce ai giornalisti è il Lazio: su 117 casi di minacce documentati fino ad oggi, 46 sono avvenuti nel territorio sede delle istituzioni del Paese.

In Toscana, Piemonte e Lombardia il numero di denunce si ferma a due, in Liguria a una. Le regioni più ‘tranquille’, dove non ci sono casi registrati, sono sette: la maggioranza è al nord, con Veneto, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia e Valle d’Aosta. Nel centro Italia l’Abruzzo. Nel sud, infine, i baluardi di un’informazione senza minacce – al momento – sono il Molise e la Basilicata, accerchiata da alcune delle regioni più a rischio del paese.

Nelle Marche, invece, si registra un trend positivo: dopo il picco di episodi – 13 nel 2015 – la situazione si è assestata con un numero che non ha mai superato la doppia cifra tra il 2011 e il 2017, anche se a metà di quest’anno la quota di episodi è già più alta di quella del 2016.

Le storie

“Decine, centinaia – ha dichiarato il presidente del Senato Pietro Grasso in apertura di un convegno sulla libertà d’informazione – sono i casi in cui i giornalisti, spesso cronisti locali, sono oggetto di minacce, aggressioni e delegittimazioni”.

Ad essere vittime di questi episodi, dunque, non sono solamente i giornalisti che lavorano per testate in tiratura nazionale, ma anche coloro che raccontano il territorio nel quale, con buona probabilità, vivono anche nel privato e sono quindi più a rischio.

Tra gli esempi più recenti, citiamo le storie di Federica Angeli e Giovanni Tizian, entrambi giornalisti del Gruppo L’Espresso. La prima vive sotto scorta dal 2013: la sua colpa? Raccontare il tessuto criminale di Ostia con la propria penna. Federica Angeli, però, non molla di un centimetro: “Davanti alla scelta poso la penna o continuo, io continuo – ha spiegato Angeli, intervenendo alla presentazione del rapporto Agcom sullo stato di salute del giornalismo italiano – nonostante le intimidazioni, la paura e la perdita della libertà”.

Tizian, invece, vive sotto scorta dal 2011: con il suo lavoro aveva iniziato a portare a galla la rete criminale della ‘ndrangheta nelle regioni settentrionali. A distanza di sei anni, il tribunale di Bologna – nell’ambito dell’inchiesta ‘Black Monkey’ – ha condannato a 26 anni di reclusione il boss Nicola Femia, che era stato intercettato mentre diceva che bisognava “sparare in bocca” al cronista che si stava impicciando degli affari delle società nell’orbita del clan.

Il furgoncino della radio ‘Studio 93’ devastato dalle fiamme. Foto: studio93.it

Le minacce alle quali sono sottoposti i giornalisti, però, sono nella maggior parte dei casi legate a danni importanti ai mezzi con i quali si lavora o ingiurie, spesso formulate senza alcun contraddittorio possibile. Nel settembre 2016, lo staff della radio ‘Studio 93’ di Aprilia trovò nel piazzale della propria sede una sorpresa sgradita: il furgoncino dell’emittente era stato dato alle fiamme. Solo alcune settimane prima il parabrezza dello stesso mezzo era stato sfondato.

Restando nel Lazio, a far riflettere è l’episodio accaduto a Giovanni Del Giaccio, giornalista del  Messaggero. Nel corso del consiglio comunale della città di Anzio del 5 novembre 2015, il giornalista, in un luogo istituzionale, viene definito “infame”. “Ho provato dispiacere – racconta Del Giaccio al Ducato – perché un consiglio comunale dovrebbe occuparsi di altro e non di chi scrive ovvero di quanto è uscito, cioè che c’erano dei morosi, aspetto che ancora oggi non è chiarito. E poi indignazione, perché nessuno ha sentito il dovere di intervenire di fronte ad affermazioni così gravi”.

Giovanni Del Giaccio

Un evento che, in sede giudiziaria, non ha avuto alcun risvolto: “Due consiglieri comunali che avevano parlato di pseudo-giornalismo hanno chiesto pubblicamente scusa, il presidente l’ho denunciato – racconta il giornalista del Messaggero – ma la Procura di Velletri con uno zelo che non si vede in altre occasioni ha chiesto subito l’archiviazione. Anche lui, però, si è scusato, ha spiegato che infame era un’uscita infelice ma non diretta a me e quindi non ho nemmeno impugnato la richiesta della Procura. Io sono convinto che i giornalisti non debbano minimizzare in occasioni del genere e quindi se arriva qualsiasi pressione bisogna rivolgersi a chi di dovere e alle istituzioni della categoria”.

Del Giaccio, però, non ha cambiato in alcun modo approccio alla professione: “Cosa dire ai giovani? Quello che dovevano sapere prima – spiega Del Giaccio – verificare, incrociare le fonti, documentarsi e non farsi intimorire di fronte a chi fa maxi querele o coinvolge chi non c’entra o chiama gli editori. Il Presidente Ciampi ebbe a ricordare la schiena dritta che dobbiamo avere, non è semplice e per di più in un tempo di crisi come quello che vive la professione – conclude – ma dare le notizie dopo aver svolto le verifiche del caso resta sempre la cosa migliore che si possa fare”.