“Con le nostre penne libereremo la Turchia”. Parla Dündar, reporter anti Erdoğan

Il giornalista turco Can Dündar in collegamento Skype con gli studenti dell'Ifg di UrbinoIl giornalista turco Can Dündar in collegamento Skype con gli studenti dell'Ifg di Urbino
di YURI ROSATI

URBINO – “Prima o poi tornerò in Turchia. Insieme possiamo battere Erdoğan e tutti gli oppressori”. Dal suo esilio di Berlino l’ex direttore del principale giornale di opposizione turco Cumhuriyet, Can Dündar, dice così agli studenti dell’Ifg di Urbino che lo hanno contattato via Skype.

È a lui che si deve la pubblicazione delle immagini che, nel maggio del 2015, hanno smascherato davanti al mondo intero i commerci segreti di armi tra il governo di Ankara e l’Isis. Dündar ha pagato a caro prezzo quella pubblicazione: tre mesi di reclusione nel carcere di Silivri, la prigione degli oppositori politici. Tre mesi in isolamento dove a fargli compagnia erano solo carta e penna. Così, durante la prigionia, è nato Arrestati. Un libro sincero e profondo che testimonia ciò che accade a chi si esprime contro il sultano Recep Tayyp Erdoğan. Ma che è ancor più un messaggio di speranza per chi è oppresso dal regime: “Non durerà per sempre”.

Lei è stato arrestato per aver fatto il suo lavoro. Come si è sentito?

Triste, ma se sei un giornalista in Turchia devi essere pronto anche a questo. Io ero pronto e l’arresto non mi ha sorpreso. Consideri che sono stato imprigionato perché non ho fatto nient’altro che dire la verità e informare i miei concittadini che i servizi turchi trafficavano armi coi ribelli siriani. Era un’operazione illegale. Io e il mio giornale ne abbiamo scritto e abbiamo diffuso il video che documentava lo scambio. Ma invece di ringraziarci siamo stati accusati di aver rivelato un segreto di stato.

Non si pente di aver pubblicato quella notizia mettendo in pericolo sé stesso e la sua famiglia?

No. E le dico di più: se avessi tra le mani le stesse informazioni adesso non esiterei a farle uscire. Quando pubblichi una storia, un titolo, un’immagine sai già quali sono i rischi che corri e immagini le conseguenze. Molti colleghi, negli anni, hanno pagato con la vita per quello che hanno scritto. Sono perfettamente cosciente del fatto che il giornalismo è un mestiere pericoloso. Ma attenzione: è pericoloso per me che lo faccio se vado contro le idee del potere, allo stesso tempo è pericoloso per il potere perché con la mia attività io posso mostrare quei lati che vorrebbe tenere nascosti. L’unica maniera di sopprimere questo meccanismo, per chi governa, è metterci in prigione. Così però non si punisce solo il singolo giornalista ma chiunque sogni di fare questo mestiere. Il messaggio è: se farete questo lavoro, sarete in pericolo. Ed è esattamente quello che è successo a me. Solo che, per fortuna, ai tempi del mio arresto non era ancora passata la riforma della Costituzione in seguito alla quale Erdoğan ha assunto un potere quasi assoluto. Se fosse successo adesso io sarei ancora in prigione.

IL RACCONTO – Ho svelato la verità sul presidente Erdoğan e la Siria. Per questo mi ha messo in prigione

Lei ha detto che la vittoria del referendum costituzionale del 16 aprile rappresenta per Erdoğan l’inizio della fine. Che significa?

Innanzitutto Erdoğan non ha vinto il referendum. Lo ha perso ma ha cambiato le regole prima che si sapessero i risultati. Poi bisogna ricordare che in seguito a queste consultazioni ha perso tutte le città principali come Istanbul e Ankara. Milioni di persone hanno avuto il coraggio di votare contro la riforma nonostante il perenne stato di emergenza e le incredibili pressioni del Governo. Per questo dico che per lui è stato l’inizio della fine.

La copertina di "Arrestati", il libro che Can Dündar ha scritto durante la prigionia a Silivri

La copertina di “Arrestati”, il libro che Can Dündar ha scritto durante la prigionia a Silivri

In Arrestati cita sia Kafka che Orwell e descrive il suo Paese come un mondo distopico in cui i valori sono ribaltati. Crede che la Turchia tornerà mai alla normalità? E, soprattutto, questa normalità significherà anche libertà di pensiero ed espressione?

Ne sono profondamente convinto. Pensi all’Italia di Mussolini, alla Germania di Hitler o alla Russia di Stalin. Ogni nazione ha attraversato dei periodi bui nella storia. Ma tutto prima o poi è destinato a finire. Quello che è importante per noi in questo momento è combattere contro l’oppressione ed essere solidali con chi è perseguitato. Ci potrebbero volere giorni o anni, non lo sappiamo. Per veder cadere Mussolini ci sono voluti 20 anni, noi siamo a 16 anni ora e magari tra non troppo vivremo in una società democratica.

Quindi spera di poter tornare nel suo Paese…

Certo, magari domani, perché no? Voglio essere ottimista. Sento che la fine del regime è vicina. Ora sta al nostro coraggio, alle nostre battaglie e alla nostra solidarietà accorciare i tempi. C’è ancora da lavorare per liberarsi di questo giogo totalitario che purtroppo controlla ancora la macchina statale, l’esercito, la polizia, l’istruzione, i media, il Parlamento e il Governo. Noi però abbiamo le penne come armi: siamo abbastanza forti da batterli.

Cumhuriyet, il nome del suo giornale, significa “Repubblica”. Pensa che la Turchia sia ancora una repubblica o c’è un modo migliore per definirla?

Il fatto che sia una repubblica non significa necessariamente che si tratti di una repubblica democratica. Anche la Siria era una repubblica, ma non era affatto democratica. Non è raro trovare altri Paesi nella stessa situazione. Quello per cui ci battiamo è che la Turchia torni ad accogliere entrambi i concetti: quello di Repubblica e quello di Democrazia. Per questo servono organi di stampa liberi.

Proprio a proposito di questo, il titolo del suo libro richiama l’ultimo tweet pubblicato un attimo prima di essere arrestato. Quanto contano i social network in un Paese dove la censura è forte come in Turchia?

Sono molto importanti. Addirittura cruciali, direi, visto che i media sono occupati da servitori del Governo e la censura è molto forte. L’unico modo per comunicare sono i social: Twitter e Facebook sono stati degli strumenti molto importanti per noi. È ancora così ma sta diventando pericoloso utilizzarli perché il Governo accusa chi si connette a internet di sostenere il terrorismo e ogni espressione contro Erdoğan è presentata come un attentato terroristico. È per questo che è pericoloso usarli e le persone hanno sempre più paura di twittare o addirittura ritwittare messaggi sgraditi al potere.

Quanto è importante che la Turchia torni ad essere laica?

Solo ora che la nostra laicità è in pericolo comprendiamo quanto essa sia preziosa. Perdere questo valore è un rischio troppo grosso per il mio Paese e per il mondo perché la Turchia è un ottimo esempio del fatto che l’Islam può vivere in sintonia con la democrazia.

Ora lei si trova in Germania, ma sua moglie e suo figlio sono lontani…

Per mia fortuna durante il tentato golpe di luglio ero in Spagna, altrimenti mi avrebbero messo di nuovo in prigione. I miei avvocati si sono raccomandati con me di non tornare in Turchia e sono rimasto in Europa. Ho chiamato mia moglie per dirle di raggiungermi, ma quando era all’aeroporto la polizia le ha ritirato il passaporto senza dare spiegazioni. Da quel giorno di 9 mesi fa non ci siamo più visti. È un po’ come se lo Stato l’avesse presa in ostaggio: attraverso di lei stanno cercando di punire me, il suo solo crimine è di essere mia moglie. E ora lei è a Istanbul, io a Berlino e nostro figlio a Londra. Voleva fare il cantante ma adesso si è impegnato nella difesa dei diritti umani. Ha capito che se voleva cantare le sue canzoni in Turchia avrebbe prima dovuto combattere per la libertà e la democrazia.

Cosa possiamo fare noi per lei e per la sua Turchia?

Molte cose. Questo incontro su Skype è già un primo passo perché per me è l’opportunità di spiegare cosa sta succedendo nel mio Paese. Per prima cosa cercate di ascoltare la nostra voce. Poi vi chiedo di non pensare che la Turchia sia soltanto Erdoğan. Ci sono un sacco di persone che combattono per la democrazia: date loro l’opportunità di spiegare le loro battaglie. Invitate nella vostra università gli accademici che sono stati cacciati perché si opponevano al regime. Visitate le città turche e mostrate solidarietà ai loro abitanti. Questo è il genere di cose importanti che potete fare perché la nostra è una battaglia che appartiene a tutti, anche a voi. Una battaglia tra chi difende la democrazia e i diritti umani contro chi opprime in Turchia, in Italia e in Europa. Bisogna essere tutti compatti nella battaglia contro Erdoğan, Le Pen, Trump, Putin e quelli come loro.