Dal Portogallo a Singapore senza volare. Il viaggio di Pedro, a Urbino per presentare il suo libro

di ALESSANDRO CRESCENTINI

URBINO – Cinquantamila chilometri tra autostop, treno e bus. 284 giorni dal Portogallo in Singapore e ritorno. Sabato sera all’Ubik, Antonio Pedro Moreira ha presentato il suo libro Daqui Ali- Dal Portogallo a Singapore senza volare. L’opera è uscita solo in portoghese e Pedro ha organizzato una campagna di crowdfunding per raccogliere i fondi necessari a pubblicarlo anche in inglese. La sua visita a Urbino è nata per promuoverla. Al momento è arrivato all’83 percento dei 4000 necessari per completare il progetto.

Pedro Antonio Moreira, per tutti Pedro, è un ragazzo come tanti altri, nato in un piccolo borgo nel nord del Portogallo 32 anni fa. La sua vita segue un percorso lineare: dopo la scuola sceglie di intraprendere gli studi in psicologia, si laurea e trova un posto di lavoro come psicoterapeuta prima in Norvegia, poi in Inghilterra. A 27 anni ha finito il suo percorso e lavora stabilmente da due anni. Un miraggio per i giovani del nostro tempo. Ma c’è qualcosa in lui che non lo fa dormire, un desiderio ancestrale che sa di dover soddisfare. In una parola, viaggiare.

Abituato sin da bambino a girare il mondo con i suoi genitori, capisce immediatamente che il suo sogno è “toccare con mano tutto ciò che prima poteva solo immaginare”. Tre esperienze, poi, gli svoltano il modo di pensare. Prima un erasmus, in Finlandia, poi l’interrail, la sua prima vera esperienza di long-term traveller. Infine l’India. Una semplice vacanza di due settimane. Solo lì comprende che per intraprendere un long-journey non serve essere un eroe, né possedere infinite ricchezze, né essere speciale. Basta volerlo. “A quel punto l’unica domanda che dovevo porre a me stesso era: ‘Lo vuoi davvero?’. Ovviamente la risposta era scontata”.

Sembra impossibile che racconti certe storie come fossero cosa di tutti i giorni. “Decisi che era giunto il momento di licenziarmi. Una mossa rischiosa, con l’economia di oggi, ma sapevo di doverla fare”, spiega. “Spesso tendiamo a proteggere noi stessi, ma così facendo finiamo per togliere a noi stessi l’opportunità di vivere la vita che veramente vorremmo vivere”. Per lui il rischio di fallire c’era e c’è tuttora. Ma tentare non significa altro che rispettare se stessi. La sete di conoscenza era troppo insistente. “Volevo sapere cosa significa per un ragazzo pakistano essere un ragazzo pakistano, non so se è chiaro”, dice. Lo è fin troppo, in tutta franchezza. Ed è veramente difficile interrompere il suo flusso narrativo. “Penso che più culture si conoscano, più si diventa una persona migliore, con uno sguardo verso la realtà arricchito da più prospettive”.
Un sacco a pelo, sette cambi di intimo, una felpa, una giacca, un paio di jeans. Una fotocamera e un pc. Tre Visa per attraversare il mondo. Zaino chiuso. Si parte.

“Ho attraversato l’Europa e poi sono arrivato in Turchia, lì è cominciato tutto”, come se attraversare trasversalmente l’Europa occidentale, circumnavigando le Alpi, attraversando i Balcani, rigorosamente in autostop, sia una cosa da poco. Così Turchia, Siria, Libano, ancora Siria e Turchia, Iraq, Iran, India, Nepal. Per Pedro sono solo tappe, una porzione di un sentiero molto più lungo di così.

Gli aneddoti che svela sembrano capitoli di un romanzo: 50mila chilometri, di cui 20mila in autostop, altrettanti in bus e 10mila in treno. E il costo della gita è a dir poco modesto: “3.300 Euro andata e ritorno, di cui 400 per uscire di galera”.

-“Prego?”

-“L’esperienza più provante e drammatica della mia vita. Mi trovavo in Laos. Ho bevuto qualche bicchiere di troppo. Quando mi sono svegliato, ero in una macchina anonima, con le mani legate dietro la schiena. Mi hanno rinchiuso e poi fatto sedere sopra la pipì, vicino a un water spaccato. Pensavo di essere stato rapito, di morire. Una donna in un’altra stanza urlava come una pazza. Io sono entrato in “survivor-mood”, ho percepito che ci fosse un legame tra un prigioniero e le guardie perché li avevo visti chiacchierare. Così, ho aspettato che tutti dormissero e a notte fonda ho iniziato a colpire con calci e pugni quell’uomo al grido di ‘Revolution, revolution!’”. Non ne vado fiero, ma spero tu possa capire le circostanze. Gli altri si son svegliati, ma non accennavano a seguirmi nell’impresa. Mi hanno solo chiesto di fermarmi –’You are in prison man, just stop!’ (Sei in galera, fermati). Mai uomo più felice di sapere di essere in carcere. Ho chiesto scusa e mi son messo a dormire. Alla fine sono stato costretto a pagarmi l’uscita con 400 Euro”.

La naturalezza spaventa ancora più delle storie stesse. “A parte questo non ho mai avuto problemi di alcun tipo”.

-“Come e dove hai dormito?”

l.php-“Per lo più couchsurfing. Spesso in treno e in autobus. A volte sono stato costretto a rifugiarmi in hotel. La prima volta è successo in Siria. Era notte fonda quando sono arrivato in città, non avevo idea di dove mi trovassi. È stato l’hotel più costoso del mio viaggio, 15 Euro una notte”.

Proprio in Siria, un luogo della Terra di cui si parla spesso ultimamente. “Era tutto tranquillo all’epoca. Ho toccato con mano le prime manifestazioni, i primi segni di protesta. Ma erano tutto pacifico”. Ma confessa che la sua relazione col mondo circostante era sempre mediata dal suo essere un estraneo in viaggio. “La mia finestra sulle realtà è stata Palmira, la città antica deturpata da Daesh ancora oggi sotto il controllo dei jihadisti. Mi sono fermato a chiedere informazioni a un gruppo di ragazzi siriani. In macchina mi sono incuriosito e gli ho chiesto che cosa pensassero del loro presidente. Solo parole di encomio per lui. Più passavano i chilometri, più si aprivano fino a quando mi hanno confessato che in realtà era un uomo malvagio. Il mio aspetto mi può far sembrare arabo e loro sospettavano che fossi una spia del governo. E quello si traduce in carcere, torture, botte. Vedere quei ragazzi mi ha aperto un mondo”.

In 284 giorni di esperienze ne ha vissute tante. Come quando era in Pakistan quando Bin Laden è stato ucciso. “Dodici ore prima della diffusione della notizia, ero proprio lì, in quelle montagne dove è stato ucciso. Non mi sono accorto di nulla, ma il giorno dopo ero spaventato. Un bianco in Pakistan si riconosce e temevo ci potesse una reazione per strada, qualcosa. Ma mi hanno rassicurato: oggi è solo un altro giorno, la vita prosegue. E così anche il mio viaggio”.

Durante il percorso ha sperimentato un modo completamente diverso di vedere il mondo. “Mi hanno aiutato tutti. Ospitandomi in casa, dandomi passaggi, lasciandomi dei soldi e addirittura pagandomi il trasporto per proseguire”, continua nella mia incredulità. Due casi su tutti, in Iraq e in Iran. “In Iraq ho chiesto indicazioni alla polizia. Questi hanno fermato una macchina e gli hanno chiesto di darmi un passaggio. Ero sbalordito. Una volta sceso ho continuato a fare l’autostop. Si è fermato un taxi e gli ho subito detto di non avere soldi. Mi ha invitato a entrare, mi ha accompagnato fino a dove dovevo andare e mi ha lasciato qualche dollaro”.

In Iran una famiglia che lo ha ospitato per giorni, lo ha sfamato e intrattenuto. “Mi chiamavano Antonì, da Antonio il mio primo nome. Non sapevano neanche cosa fosse il Portogallo, dicevo che venivo dall’Europa. Lì ho capito quanto siamo piccoli. Non avevo una lingua in comune: io mi esprimevo a gesti alternati al portoghese, loro a gesti alternati al Farsi, la lingua persiana. Prima di iniziare un nuovo capitolo, mi hanno lasciato questo braccialetto, di gran lunga l’oggetto, l’accessorio più prezioso che possiedo. Contiene alcuni versi del Corano che proteggono i viaggiatori. E in cambio gli regalai una lanterna”.

Braccialetto

La sua idea originaria era quella di arrivare in Singapore, passando per il Tibet e la Cina. Ma non poteva farlo perché in quel periodo non facevano entrare turisti a causa di una manifestazione comunista. “Sono stato costretto a prendere un aereo fino alla Tailandia, solo dopo sono riuscito a raggiungere il Singapore passando per la Malesia”. Non era riuscito a realizzare il progetto che aveva in testa quando era partito. “Mi sono detto: beh, non ci sono riuscito all’andata. No problem, lo farò al ritorno”. E così via, Cambogia, Vietnam, Laos, Cina, Mongolia, Russia, repubbliche baltiche, Polonia e così via.

Quest’anno Pedro ha preso un’altra grande decisione che cambierà, di nuovo, la sua vita: sposarsi. Quando la sua ragazza lo ha raggiunto in India per qualche giorno gli aveva regalato un anello. Niente di particolare, solo un simbolo della loro unione. Ma lui aveva pianificato tutto: “Aspettavo solo di trovare il posto giusto e ho scelto la valle dei templi in Cambogia, il posto creato dagli uomini più bello che io abbia mai visto. L’ho seppellito lì, nei pressi di un tempio, e solo 4 anni dopo ho convinto la mia fidanzata a fare un viaggio da quelle parti con una scusa, solo per andare a recuperare l’anello che avevo nascosto e proporle di sposarmi”. L’anello non l’ha più ritrovato, ma lei ha subito detto di sì.

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Alexander Crescentini