Il sistema calzaturiero napoletano
Il quartiere Stella-Sanità è quello che più anticamente si è specializzato nelle calzature e nell’abbigliamento, fin dall’Ottocento. Verso la fine di quel secolo, vi fu un primo passaggio da lavorazioni di natura artigianale all’organizzazione di fabbrica con l’utilizzo di macchinari in alcune fasi della produzione. Ancora oggi, a più di un secolo di distanza, il settore continua a vivere a cavallo tra la fabbrica e i laboratori artigianali, con ampia offerta di lavoro a basso costo, utilizzo di lavoro irregolare, disponibilità di spazi angusti e degradati. “Esiste l’imprenditore per tradizione, l’imprenditore di mestiere e l’imprenditore opportunista - scrive la sociologa Paola De Vivo nel saggio Il sistema moda nella provincia di Napoli - Il primo utilizza le risorse accumulate dalle famiglie nei percorsi lavorativi e poi trasferite ai figli, che intraprendono la stessa attività; il secondo si avvale delle risorse che derivano dal suo lavoro dipendente per poi aprirsi un’impresa; il terzo si sostanzia di quanto riesce a comprimere sui costi dei salari, avvalendosi di lavoro del tutto o in parte irregolare”.
Nel calzaturiero si va dal modello di produzione della grande fabbrica (come è stata la Mario Valentino, con oltre 300 dipendenti e un marchio divenuto famoso in tutto il mondo) fino alle piccole e medie aziende, ai laboratori decentrati, al lavoro a domicilio. La stessa produzione varia dalla scarpa di lusso per l’esportazione, venduta a prezzi altissimi nelle boutique di alta moda in giro per il mondo, alla scarpa scadente immessa sul mercato locale e venduta sulle bancarelle. Le aziende che stanno sul mercato internazionale sono quelle che hanno lasciato una forte componente artigianale nelle fasi della lavorazione, che determina l’alta qualità del prodotto.
“L’assenza di una rete stabile – continua la De Vivo nel suo saggio dell’anno 2000 – la mancanza di rapporti istituzionali, nonché le caratteristiche di degrado e povertà in cui le aziende operano, sono tutti elementi che concorrono a favorire forme di concentrazione delle imprese nel quartiere ma che al contempo non alimentano uno sviluppo in grado di sostenersi”.
Un fenomeno cui si assiste da qualche decennio è la delocalizzazione di molte attività del comparto moda verso i comuni della cintura metropolitana e, ancora più recentemente, l’ingresso nel mercato prevalentemente illegale della manodopera cinese. “Ciò che non è stato mai fatto, e che invece potrebbe contribuire a uno sviluppo sano del settore, sarebbe la definizione di un marchio di qualità per il prodotto napoletano o la creazione di consorzi delle scarpe”.
IL LAVORO NERO E IRREGOLARE - Difficile fare una stima del lavoro irregolare e del sommerso nel settore calzaturiero e nell’area nord-orientale di Napoli, maggiormente interessata dalla produzione di scarpe. La De Vivo stima una cifra intorno al 50 % di posizioni lavorative completamente irregolari, considerando anche opifici e lavoro a domicilio. “Affermare che c’è lavoro sommerso può significare tutto – scrive – o niente se non lo si rapporta concretamente all’economia e alla società di questi territori: il sommerso sembra ormai essere parte integrante del sistema economico napoletano e della sua provincia. Fuoriuscirvi significa di fatto rompere un equilibrio costituitosi tra imprese, lavoratori, famiglia e istituzioni”. Conferma, cioè, quanto ci ha raccontato Francesco Ruotolo: “Il lavoro nero è un fattore strutturale dell’economia del rione ed è il male minore perché l’alternativa può essere quasi unicamente la camorra. Per questo c’è un tacito accordo tra sindacati, che qui non esistono, e lavoratori, che sanno che la contrattualizzazione sarebbe la fine del loro lavoro”.