Mani libere e mani in nero
nel ghetto del made in Italy


Pubblicato il 31/03/2012                          
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NAPOLI – Si fa fatica a pensare che per secoli abbia regnato il silenzio in questo rione. Prima i greci, dal III-IV secolo a. C., poi i cristiani scelsero la Sanità come luogo per la  sepoltura dei morti . La roccia di tufo e la vicinanza con la città greco-romana, infatti, si prestavano allo scavo e alla costruzione di una necropoli.

Oggi il rione è un viavai di gente e motorini. Sembra la medina di una città araba per i negozi e le bancarelle di ogni tipo, per le strade strette in cui il sole non penetra mai, mentre ricorda un quartiere di periferia di una grande metropoli per le persone di ogni razza e provenienza che si incontrano.

Qui la vita ruota intorno al lavoro e al bisogno di guadagnarsi la giornata.  Arrivando da via Foria e lasciandosi alle spalle il centro storico, si entra subito nel cuore pulsante del rione:  il mercato. Aperto dall’alba al tramonto, è un’esplosione di voci e colori. Vincenzo Moccia è un vecchio urlatore che invita i clienti a comprare mandarini e insalata alla bottega in cui lavorano i suoi figli, terza generazione di fruttivendoli.  Sembra avere successo perché molti si fermano a comprare la frutta, mentre davanti alle altre botteghe non c’è nessuno.

In ogni vicolo della Sanità c’è  una fabbrica diffusa, in nero ma alla luce del sole. Piccole stanze, scantinati, “bassi” dove si fabbricano tacchi, scarpe, guanti, borse e cinture, che finiscono spesso nei grandi negozi alla moda di Parigi, Milano, o degli Stati Uniti. Ognuna può ospitare fino a 15 operai-artigiani, in gran parte donne. Si lamentano della concorrenza dei cinesi, soprattutto nel settore delle scarpe, perché devono adeguarsi ai loro prezzi per non chiudere.

Raffaelina e Lucia sono amiche e lavorano in due “bassi” di via Fontanelle in cui si fabbricano scarpe. Se una non riceve commissioni, l’altra la chiama a lavorare. Amicizia e solidarietà vengono prima di profitto e concorrenza in questo rione. Un modello produttivo sempre più raro, ma che qui sopravvive. L’altra faccia della medaglia dell’illegalità.

Il consigliere della terza municipalità di Napoli Francesco Ruotolo

“Il lavoro nero è la regola nel quartiere – spiega il consigliere di municipalità Francesco Ruotolo – I controlli sono inesistenti e tutto questo apparato produttivo si regge sulla non legalizzazione. Se le paghe fossero sindacali e se l’imprenditore pagasse le imposte, salterebbero i profitti e l’occupazione. Esiste, perciò, un tacito accordo tra sindacati, che qui non esistono, e artigiani, che sanno che la contrattualizzazione sarebbe la fine del loro lavoro”.

Ogni famiglia è un apparato produttivo che produce tanti piccoli redditi.  Come dice Ruotolo “c’è la pensione sociale dell’anziano, l’accompagnamento di invalidità del nonno sulla sedia a rotelle, i 500 euro al mese del lavoro nero nel settore dell’abbigliamento, il padre che fa il venditore ambulante, la figlia che fa la baby sitter. Quando questi redditi o parte di essi vengono a mancare, ecco che la camorra diventa una facile alternativa col traffico di droga e l’illegalità violenta, delinquenziale, omicida. Perciò il lavoro nero è il male minore”.

Ascolta la testimonianza di Francesco Ruotolo

Camminando nel rione,  si possono però trovare anche esempi di legalità e di eccellenza del lavoro, come Omega, una delle fabbriche del guanto più importanti al mondo, in via Stella. Nata più di 100 anni fa, è gestita ora da Mauro Squillace, imprenditore napoletano che l’ ha ereditata dal nonno e poi dal padre. Vende 60 mila paia di guanti all’anno e non risente affatto della crisi. “C’è bisogno di passione per fare questo mestiere, altrimenti non vale neanche la pena iniziare” dice. Per togliere manodopera alla camorra, invita i ragazzi della Sanità a fare apprendistato nella sua fabbrica e ad imparare l’arte del guanto.

La storia di Squillace è un’eccezione in un rione in cui la crisi economica e l’arrivo di manodopera straniera hanno portato alla chiusura di botteghe e aziende. Così molti si sono ritrovati senza lavoro.

Salvatore Catapano lavorava come decoratore di bomboniere in una fabbrica. Ha perso il posto perché l’azienda ha chiuso e ha deciso di aprire assieme alla moglie un negozio di bomboniere in via Macedonio Melloni. In parte con le proprie forze, in parte grazie a un sistema di microcredito, presente nel rione, che aiuta a finanziare le piccole attività commerciali.

Di fronte alle difficoltà economiche, legate anche alla crisi, c’è chi ha saputo sfruttare il proprio talento “inventandosi” un secondo lavoro. Vittoria Di Giovanniniello, madre di quattro bambini, fa la collaboratrice domestica, ma  ha scoperto di avere anche un talento per la fotografia. Ha un piccolo studio al Supportico Lopez, messole a disposizione da una rete di associazioni della Sanità. Fotografa alle comunioni, ai compleanni e ai battesimi : “il lavoro nobilita l’uomo, non mi sono affatto montata la testa per il talento artistico che ho scoperto di avere”.

SGUARDI SUL QUARTIERE – Antonio Caiafa è un filmaker e gestisce un blog che è una voce del rione. Tra 2008 e 2009 i cittadini del rione hanno protestato  contro la trasformazione del vecchio cinema del rione in supermercato e hanno occupato il parco san Gennaro e il cimitero delle Fontanelle per riappropriarsi degli spazi pubblici che erano loro negati. Allora Caiafa  ha realizzato un documentario intitolato “I moti spontanei“.

Via dei Cristallini si trova nella zona più povera del quartiere, a due passi dal mercato dei Vergini. Proprio qui, in uno splendido palazzo storico al civico 138,  Davide ha aperto una decina di anni fa un bed and breakfast di lusso. Per lui,  che di lavoro ha sempre fatto l’architetto di interni, è stato un ritorno a Napoli dopo aver vissuto a lungo in un quartiere borghese di Parigi. Voleva ritrovare una vita semplice e rilassata, a contatto col popolo. Un piccolo paradiso dove poter coltivare i suoi interessi. Così ha convinto due amici, Pierre e Ken, a trasferirsi a Napoli dalla Francia e dalla Scozia e ad avviare con lui questa attività. Da loro arrivano soprattutto turisti francesi e artisti, mentre gli italiani non sono molto graditi “perché non capiscono che questo  è un quartiere originale, come il bronx a New York”.

Attorno alla parrocchia di santa Maria della Sanità sono nate cooperative e associazioni di giovani finanziate da privati e fondazioni, soprattutto grazie all’impegno di padre Antonio Loffredo. Dal suo ‘osservatorio’ speciale sul quartiere, racconta come ha aiutato i ragazzi nella realizzazione dei loro progetti e iniziative.  “Per prima cosa li abbiamo fatti viaggiare perché questo è un ghetto per come è stato concepito dal punto di vista urbanistico e i giovani hanno bisogno di aprire la mente. Poi sono nate tante realtà interessanti in ambito culturale, come l’orchestra dei bambini, il teatro, l’officina dei talenti del restauro, i doposcuola”.

Susy Galeone fa parte della cooperativa “La paranza” e lavora come guida turistica nelle catacombe che attraversano il rione: san Gennaro e san Gaudioso. E’ una dei tanti giovani che, grazie alla parrocchia, è riuscita ad avere un impiego a tempo indeterminato. “Il rapporto del rione con la morte è millenario e ancora oggi si respira nell’aria” racconta.

Anche il missionario comboniano Alex Zanotelli lavora in questo rione da sette anni e coordina la rete di associazioni della Sanità. Per lui, la camorra ha perso molta della sua forza nel rione. Pochi sono i negozianti che pagano il pizzo, ma “quello che preoccupa di più è la mentalità mafiosa, il fatto di far finta di niente”.  La Sanità è un ghetto dalla fine del Settecento, quando fu costruito il ponte che isolò per sempre il quartiere. “Non c’è dialogo tra il rione e il resto della città. Ci sono due città che non vogliono parlarsi: un muro che potrebbe creare futuri conflitti se non viene abbattuto”.  “Eppure  - aggiunge – vedo poveri che aiutano i più poveri e tante associazioni che lavorano insieme  per migliorare le cose”.

Per Zanotelli il rione ha un passato straordinario ed è da queste radici che bisogna partire per guardare al futuro. “Scampia è un posto spaventoso, da abbattere e ricostruire, senza storia né radici, dove ci si sente totalmente isolati. Qui almeno si è in mezzo a gente orgogliosa della sua storia”.

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