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Susan Dabbous: “La Siria è un Paese ormai fuori controllo”

Susan Dabbous

Un conflitto sporco fatto di tutti contro tutti: la Siria di Assad brucia, ma le informazioni che riescono ad oltrepassare la barriera del silenzio sono frammentate. I giornalisti che vogliono raccontare la rivoluzione siriana devono lavorare in clandestinità e rischiano ogni giorno di essere rapiti.

L’ultimo giornalista di cui si sono perse le tracce è l’inviato della Stampa Domenico Quirico: il giornale di Torino non ha sue notizie da due settimane, quando si trovava nella zona di Homs.

Ad aprile erano scomparsi altri giornalisti, tra cui Susan Dabbous, che in questi anni ha seguito gli scontri tra l’esercito ribelle e il regime di Assad: lei è stata la prima a raccogliere le testimonianze apparse sui giornali italiani dei disertori torturati dal regime di Damasco. Il 4 aprile scorso è stata rapita, insieme a tre colleghi (Amedeo Ricucci, Elio Colavolpe e Andrea Vignali), da un gruppo islamista, per essere poi liberata dopo 8 giorni. Lei e i suoi colleghi erano stati accusati di spionaggio perché probabilmente avevano ripreso qualcosa che i ribelli non volevano si vedesse.

In Siria la diffidenza verso gli stranieri è alta e i giornalisti sono quelli più a rischio. Chi decide di partire per la Siria lo fa sapendo quello che rischia, ma in questo lavoro non vale improvvisare.

Qual è stata la tua preparazione prima di partire?
Quando ero al quotidiano Terra ho reperito informazioni lavorando dal desk: ho preso contatto con la comunità siriana in Italia, ho studiato il territorio e poi sono stata in Turchia per approfondire la situazione siriana da quella parte del confine. Ero una neofita in questo tipo di giornalismo e prima di entrare fisicamente in Siria mi sono creata una rete di contatti che ho avuto tramite colleghi. In casi come questi bisogna essere solidali con gli altri giornalisti, anche perché farsi concorrenza non porta da nessuna parte. La lunghezza del conflitto non permette di essere in competizione. Andare allo sbaraglio non conviene, si rischia la pelle; ti può andare bene, come ti può andare molto male. C’è chi l’ha fatto: ci sono alcuni freelance americani che sono scomparsi da 7 mesi e non si sa dove siano finiti. È fondamentale chiamare dei professionisti già presenti sul territorio per avere una rete: in questo modo si riesce a fare un lavoro straordinario.

Come hai fatto concretamente ad entrare in Siria?
La Siria ha proposto dei problemi abbastanza inediti: il regime non rilascia visti, perciò se vuoi entrare nel Paese lo devi fare illegalmente, nelle totale clandestinità. Per farlo ti devi affidare a qualcuno che può farti passare il confine. Una volta dentro devi affidarti ai tuoi contatti. Questi ti portano dalle persone da intervistare o dove c’è qualcosa da raccontare: campi profughi spontanei, città senza elettricità, villaggi bombardati e feriti senza assistenza. Tutte storie che ho raccontato in questi anni. All’inizio chi voleva entrare in Siria doveva affidarsi a dei contatti presenti sul territorio in grado di garantirti una protezione, ma a due anni di distanza quelle stesse persone non possono più darti protezione perché la situazione è totalmente fuori controllo.

In che senso “senza controllo”? Che tipo di conflitto è quello siriano?
Il conflitto siriano è una guerra civile, senza dubbio. Ma nell’ultimo periodo le cose stanno cambiando; si è aperta una nuova fase in cui non ci sono più solo due schieramenti ben distinti: l’esercito ribelle non è più compatto e l’opposizione siriana si è frammentata in molti gruppi che perseguono diversi scopi e sono in guerra fra loro. Non esiste più un blocco unico fatto di ‘tutti contro Assad’ come invece era all’inizio.

Chi sta prendendo le redini dell’opposizione? I gruppi laici o quelli islamici?
I gruppi islamici sono armati meglio e stanno avendo un ruolo da protagonisti nel conflitto militare. L’anima laica della Siria è in minoranza perché oppressa dalla propaganda islamista, ma è comunque presente sul piano politico. Ci sono molte figure interessanti all’interno dei gruppi laici che avranno sicuramente un peso nella leadership futura del Paese. Molti di questi esponenti sono in esilio e quando rientreranno si aprirà sicuramente una nuova partita. Ma per il momento questa prospettiva è ancora lontana, visto che la situazione militare è bloccata.

Avevi delle guardie del corpo in Siria?
All’inizio non avevo una scorta militare, poi quando mi sono unita ad una troupe televisiva è diventato necessario avere delle guardie armate. Eravamo molti e davamo nell’occhio, per questo avevamo due uomini delle sicurezza e una guida. Ma è servito a poco, dato che alla fine ci hanno preso…

Che ruolo hanno i paesi confinanti in questo conflitto?
In Iraq, il governo ufficiale appoggia il regime di Assad, ma Al-Qaeda sta con i ribelli islamici. La Turchia è la nazione confinante più potente e cerca di sfruttare questa situazione, anche politicamente. Il Libano, invece, è uno Stato troppo debole per avere una sua linea autonoma ed è sotto l’influenza del governo di Damasco. Però al suo interno, la comunità sunnita appoggia l’opposizione.

Ribelli siriani tra le strade di Aleppo

Quale potrebbe essere il futuro politico della Siria? Il nuovo governo sarà composto da islamici moderati sul modello egiziano di Morsi?
È veramente difficile fare un pronostico in questo momento, la composizione etnico sociale della Siria è molto diversa da quella dell’Egitto: lì c’è una quasi totalità di musulmani sunniti, circa il 90%, mentre in Siria questa componente è al 70%. La restante parte è fatta di altre confessioni religiose. Oltre a una consistente comunità cristiana c’è anche la minoranza musulmana alawita, di cui fa parte la famiglia di Assad, al potere da 40 anni. Prima questa comunità era la più svantaggiata e marginalizzata, mentre adesso è diventata classe media. Il colpo di Stato le ha fatto fare un salto di qualità e gli alawiti fanno di tutto per mantenere i privilegi acquisiti.

Tornando alla tua specifica esperienza, per una donna giornalista è più difficile lavorare in zone di guerra e raccontare un conflitto in prima persona?
Non credo che sia più difficile per una donna lavorare in una zona di conflitto. E non ci sono problemi per una giornalista lavorare in un Paese islamico: in Marocco, in Egitto o altri lo fai tranquillamente. Il problema è quando ci sono gruppi fondamentalisti islamici: loro vedono la donna come qualcosa di ‘impuro’, per semplificare. Nel mio caso, quando vieni rapita da uno di questi gruppi hai l’aggravante di essere una donna. Da parte loro c’è il rispetto del corpo, ma non quello dell’individuo”.

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