“Il freelance ormai non è altro che un lavoratore subordinato senza nessuna garanzia. Altro che libero professionista”. Valeria Calicchio sa di cosa parla. Lei è una giornalista che ha frequentato la scuola di giornalismo di Salerno: stage in diverse testate, collaborazioni con un free press romano, ufficio stampa per una società della pubblica amministrazione della capitale. Ma anche disoccupazione, rabbia e impegno per la tutela dei giornalisti precari con il gruppo romano di Errori di Stampa.
Esiste realmente in Italia la categoria “pura” dei freelance?
Parlare di freelance in Italia oggi è difficile. Prima, in effetti, il giornalista freelance era una specie di privilegiato: realizzava dei pezzi, li vendeva a cifre anche molto alte e viveva in maniera degna. Adesso freelance indica una categoria di persone che sono perlopiù sottopagate; collaboratori che vengono chiamati così per nobilitare quella che in realtà è una precarizzazione del lavoro. Si parla quindi di persone che collaborano con le testate senza contratti, senza lettere di ingaggio, senza nessuna garanzia che però di fatto svolgono un lavoro subordinato, ovvero l’esatto contrario del lavoro di libero professionista che dovrebbe fare il freelance. La categoria del freelance in Italia non è molto chiara, non rispetta i canoni che dovrebbero esserci e che ci sono anche all’estero. I freelance puri sono pochissimi.
Quindi, a differenza degli altri paesi, essere freelance da noi non è il risultato di una scelta libera.
Non lo è o almeno non lo è più. Essere freelance in questo momento in Italia vuol dire essere sottoposti a un ricatto. Sono le aziende per le quali lavori che ti costringono ad aprire la partita iva. Così in pratica sei un libero professionista ma un libero professionista che prende al mese 800 euro netti, 1000 lordi. A mio avviso questa non è una scelta e non vuol dire essere libero professionista. E’ un settore così drammaticamente in crisi che non so cosa possa aiutarlo in questo momento. Siamo 110mila giornalisti in Italia e il 60/70 % non arriva a 5000 euro all’anno. I disoccupati non si contano perché non c’è un censimento reale. Non c’è nemmeno il polso della situazione.
Quali sono le “chiavi” per accedere da freelance al mercato giornalistico?
Non so quali siano le strategie. Questo lavoro funziona molto per conoscenza e cooptazione. Non è così immediato vendere. Poi la questione del citizen journalism ha aperto altri grandissimi problemi perché le testate comprano a pochissimo – o anche gratis in cambio di visibilità – pezzi, servizi, foto da gente che non è professionista, che non vive di giornalismo. Quindi l’asticella della collaborazione si è abbassata ancora di più perché le redazioni riescono a trovare contenuti e materiali gratis. Molto probabilmente riescono a vendere i pezzi quelli che lavorano all’estero ma nemmeno tanto in fondo: ci sono dei blogger famosissimi, giornalisti, colleghi che stanno in Siria che raccontano quelle situazioni da anni e che in Italia non hanno mercato.
La categoria però non è lasciata a se stessa: c’è il sindacato. In che modo tutela i freelance?
Tre anni fa è nata la commissione nazionale freelance, un organismo che si occupa di studiare e porre dei rimedi alla condizione della categoria. E’ composta da rappresentanti di tutte le regioni di Italia ed è una commissione di studio e di valutazione dei problemi relativi alla precarizzazione del lavoro giornalistico. Precarizzazione e non precariato. Perché il precario è qualcuno che già ha un contratto che gli verrà rinnovato o che comunque ha delle tutele. Invece poi c’è tutta una schiera di persone che non avendo contratti, non avendo appigli di nessun tipo, non ha diritto nemmeno al paracadute. Questa commissione cerca, quindi, di studiare il fenomeno e di porre dei rimedi con le vertenze, con il rinnovo del contratto giornalistico, con la questione dell’equo compenso.
Eppure sembra che ci siano delle correnti contrarie anche all’interno dello stesso sindacato.
Questa è una parte del sindacato. Un’altra parte in maniera ufficiosa rema contro perché schiava ancora dell’idea che sia necessario tutelare chi è già tutelato. La vertenza quindi si apre se si va in crisi e rischiano il posto di lavoro i contrattualizzati; i precari e i collaboratori, invece, sono sempre all’ultimo posto. Chiaramente la Commissione nazionale freelance è in aperto scontro perenne con la segreteria nazionale del sindacato. E’ una lotta fratricida tra contrattualizzati e nuovo sottoproletariato giornalistico.
Che aria tira nelle redazioni? Si avverte ostilità tra schieramenti opposti di giornalisti?
Certo, perché i cdr non si interessano minimamente ai collaboratori eccetto rarissimi casi. Si sono creati dei coordinamenti di collaboratori precari in molte testate tra cui il Messaggero, L’Unità, Repubblica, Rai. Lo scopo di questi coordinamenti è far sentire la voce anche di chi è collaboratore. Però fino a quando non ci sarà un rappresentante dei precari nei cdr non otterremo grandi conquiste.
Tu fai parte di Errori di Stampa, il coordinamento di giornalisti precari romani da tempo attivo nella capitale in difesa dei diritti della categoria. Pensi che combattere per cambiare questa situazione serva?
La lotta è l’unica cosa che può salvarci da questo sistema. Il primo coordinamento dei precari è nato in Friuli nel 2006. Negli ultimi quattro anni sono nati in Italia coordinamenti in tutte le regioni e sicuramente questo ha contribuito ad richiamare l’attenzione sul tema del precariato. Prima non se ne parlava o comunque si pensava fosse una prassi dovuta: per diventare giornalista dovevi fare la gavetta. Il problema è che facevi la gavetta e poi avevi un contratto. Adesso no. La lotta serve: in due anni e mezzo siamo riusciti a ottenere grandi successi. Abbiamo scritto una carta deontologica, abbiamo ottenuto l’equo compenso per i giornalisti che è un traguardo storico perché riconosce che il lavoro intellettuale debba essere pagato equamente. Sono conquiste e le abbiamo ottenute facendo manifestazioni, petizioni, di tutto insomma.
Ora c’è un appello, che tu hai firmato, per la convocazione degli stati generali dell’informazione precaria…
Sì, ho firmato perché ritengo si debba discutere per trovare degli strumenti all’interno delle nostre associazioni di categoria per monitorare il fenomeno. Cioè non basta soltanto parlarne, bisogna monitorare con dati certi. Se la Federazione e l’Ordine non hanno il polso della situazione ma non riusciremo mai a pensare ai rimedi giusti da prendere. Stiamo chiedendo con forza la convocazione degli stati generali dell’informazione precaria per capire lo stato delle cose attualmente e discutere di soluzioni.
Una situazione drammatica, eppure la politica continua ad attaccare i giornalisti perché sono una casta.
Sono attacchi demagogici a una categoria che dalla maggior parte delle persone viene definita come casta quando invece la casta in realtà è meno del 10 %: il resto sono servi della gleba. Si attaccano persone che prendono meno di un operaio metalmeccanico. Prendere 1200 euro al mese sarebbe già un traguardo, non li prende nessuno. La maggior parte di noi è disperata.
Tirando le somme, sembra che essere giornalisti oggi non convenga. Perché invece tu lotti tanto per difendere la professione?
Perché la vita democratica di un Paese si basa sulla libera informazione dei cittadini. E’ una funzione importantissima come può essere quella del medico, quella dell’insegnante. Se non c’è informazione corretta, non c’è nemmeno democrazia. Credo che oggi più che mai ci sia bisogno di informare in maniera corretta: nel mondo globalizzato dove i canali dell’informazione si sono moltiplicati in maniera esponenziale c’è bisogno di una guida, di chi ti dia delle chiavi di lettura del reale. La professione, quindi, si è modificata ma ce n’è più che mai bisogno proprio perché si sono allargate così tanto le possibilità per essere informati che forse il rischio è di esserlo meno. C’è bisogno di mediatori, di persone che sappiano fare informazione, che è un’operazione complessa, delicata: devi trovare le notizie, verificarle. Non è facile nonostante ormai oggi ci siano blogger, Twitter, Facebook. C’è bisogno di chi rispetti la deontologia, di chi rispetti le regole che ci siamo dati negli anni per poter fare informazione in maniera corretta.
Hai mai pensato di andare all’estero?
No. Assolutamente no. Questo è il mio Paese e questo è il Paese che voglio cambiare e nel quale voglio vivere.
“Questo lavoro funziona molto per conoscenza e cooptazione.”
No, funziona SOLTANTO per cooptazione: è esattamente quello che mi disse il mio Direttore (compianto maestro di giornalismo) allorché, divenuto pubblicista e non potendo permettermi di frequentare una Scuola di giornalismo (allora, oltre a Urbino credo ve ne fosse soltanto un’altra), scrissi a tutte le testate italiane chiedendo di poter fare il praticantato…
Una risata mi seppellì, ma ho continuato a scrivere.
Però per vivere ho dovuto accettare un impiego stabile, ma squalificante.