Si chiama Irpi, è l’acronimo di Investigative reporting project Italy ed è la prima associazione di giornalismo d’inchiesta nel nostro Paese. È stata creata concretamente quattro mesi fa, anche se l’idea embrionale nacque a Kiev, nell’ottobre 2011, nel corso della settima edizione della Global Investigative Journalism Conference (Gijc). E non è un caso, visto che il suo tratto distintivo è proprio la doppia natura nazionale e internazionale.
Otto fondatori, sette reporter e alcune delle firme più importanti del giornalismo d’inchiesta tra soci onorari e advisor, come Milena Gabanelli e Charles Lewis (fondatore del Center for pubblic integrity e considerato tra i 30 giornalisti investigativi più importanti negli Stati Uniti dai tempi della prima guerra mondiale). Inchieste, notizie ma anche servizio di fixing, che va dall’assistenza logistica a quella linguistica, per giornalisti stranieri e agenzie di stampa internazionali.
“L’idea è stata di Guia Baggi, è stata lei la molla. Al ritorno in Italia ha contattato tutti i giornalisti italiani presenti a Kiev e a gennaio è nata Irpi”. A parlare è Leo Sisti, direttore esecutivo dell’associazione, giornalista dell’Espresso, del Fatto Quotidiano e collaboratore di Repubblica. “Abbiamo scelto la formula non-profit perché tutto ruota intorno ai finanziamenti, organizzazioni di questo tipo – spiega Sisti – vengono finanziate da fondazioni che spesso per statuto scelgono di sostenere inchieste giornalistiche che non provengano da società capitalizzate”.
E quando parla di fondazioni Sisti si riferisce soprattutto a realtà internazionali che hanno un ruolo fondamentale nel giornalismo d’inchiesta, come il network americano The International consortium of investigative journalist (Icij) e la Gijn. Organizzazioni di cui Sisti fa parte ormai da molti anni e con cui ha realizzato inchieste del calibro di Offshoreleaks. “Quando nel 2000 mi chiesero di entrare nell’Icij accettai volentieri perché mi interessava molto l’esperimento, un sistema rivoluzionario basato su una rete, oggi, di 160 giornalisti di tutto il mondo e di testate differenti”.
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Una nuova frontiera del giornalismo in cui la chiave è la collaborazione tra colleghi di varie nazionalità. La lingua d’uso è ovviamente l’inglese, così quando l’inchiesta è pronta viene immessa nel circuito internazionale attraverso il web a disposizione di tutte le testate mondiali che possono prenderla senza pagare. Una realtà impensabile prima d’ora in Italia: da qui l’esigenza di creare un centro specifico per il giornalismo investigativo. “In Italia non dico che l’inchiesta sia morta, ma ci manca poco, perché richiede molto tempo, denaro e risorse; le testate oggi hanno sempre meno giornalisti attivi a disposizione che non possono essere distaccati dalle redazioni per tempi troppo lunghi. Quello che cerchiamo di fare con Irpi è importare il modello internazionale di fare inchiesta”.
Ma qual è il modello da seguire? Leo Sisti e la sua squadra di reporter hanno scelto il metodo anglosassone, quello dell’inchiesta approfondita che impone tempi lunghi, tanta documentazione, ricerca attenta delle fonti e, soprattutto, citazione di tutte le posizioni. “Oggi un grande aiuto viene da Internet, Google è una grande fonte, ma non basta. Molto più importante è il data journalism, cioè la possibilità di accedere a banche dati e ricavarne notizie”.
Ma per farlo bisogna imparare non solo a cercare ma anche ad usare i dati e l’Italia solo adesso comincia a muovere i primi passi in questo senso. “Ho iniziato a seguire conferenze internazionali sul data journalism già dieci anni fa – racconta Sisti – e proprio in una di queste, a Boston, il caporedattore del Seattle Times mi disse che le ultime assunzioni loro le avevano fatte in questo settore; c’è bisogno di gente che sappia ‘smanettare’, che sappia fare ricerche su internet a livello approfondito”.
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Questo non esclude il contatto umano che, secondo il giornalista dell’Espresso, resta sempre la fonte primaria, specialmente nella cronaca giudiziaria dove la ricetta è sempre la stessa: frequentare i tribunali, parlare con gli avvocati, con i magistrati e con le forze dell’ordine. “Il mix di ricerca sui siti web, data journalism e ‘fonti umane’ crea un circuito di notizie che poi sfocia in un’inchiesta”.
Il problema però poi è piazzare, vendere il lavoro e immetterlo nel circuito mediatico. “L’Irpi è nato da meno di quattro mesi, un’inchiesta è stata venduta al Guardian e un’altra spero verrà pubblicata sull’Espresso”. Ma quello che conta di più per Leo Sisti è spiegare come si riesca a realizzare un’inchiesta: “Come Irpi abbiamo fatto richiesta di alcune sovvenzioni allo European journalism fund, ne abbiamo ottenute due e siamo stati gli unici italiani a vincere su circa 40 domande presentate. Ci hanno finanziato per 5000 euro che abbiamo utilizzato per le ricerche e le spese dei viaggi. Il ricavato della vendita dell’inchiesta, invece, andrà ai giornalisti che ci hanno lavorato, anche perché dei nostri reporter solo tre hanno un contratto stabile con delle redazioni, gli altri sono freelance e non hanno introiti mensili”.
Nonostante l’associazione sia appena nata, il riscontro da parte dei colleghi è stato positivo. L’inchiesta-lancio di Irpi sulle frodi nell’agricoltura, intitolata “Concentrato di pomodoro cinese ‘Made in Italy’ venduto in Inghilterra”, è stata pubblicata lo scorso febbraio dal Guardian proprio per la sua caratteristica trasnazionale. Non solo perché scritta in inglese, ma soprattutto perché incentrata su una partita di 200mila barattoli di concentrato di pomodoro immessi nella grande distribuzione inglese e spacciati per prodotti italiani. Un’inchiesta che nel nostro paese ha portato alla condanna in primo grado del titolare di un’azienda per il reato di utilizzo fraudolento del marchio di produzione italiano.
In chiusura non poteva mancare una considerazione amara sullo stato del giornalismo d’inchiesta nel nostro paese. “Il fatto che nella televisione italiana, che resta comunque lo strumento mediatico più forte, – afferma Sisti – ci sia un solo programma che fa veramente inchiesta, ed è Report della Gabanelli, la dice lunga sullo scarso interesse da parte dei media televisivi su questo tipo di giornalismo”.
Il problema, secondo il giornalista dell’Espresso, è principalmente di tipo politico, il timore di trattare temi scottanti deriva da una non totale libertà di espressione, che relega il nostro paese agli ultimi posti della graduatoria dell’informazione d’inchiesta.
Ma quindi quale futuro si prospetta per i futuri giornalisti? “Io vengo da una scuola, come quella dell’Espresso, dove la cura del dettaglio e della notizia è fondamentale. E la notizia costa fatica, gambe, cervello e disponibilità illimitata di tempo. Ai giovani giornalisti posso solo dire di essere umili, curiosi, determinati, di non guardare in faccia nessuno e non avere timori reverenziali nei confronti di nessuno”.