URBINO – “Abbiamo una cultura atroce, pesante e nefasta. Che frequenta un po’ troppo i cimiteri”. Italo Moscati è regista, scrittore, giornalista. Ha alle spalle molte pubblicazioni, ha lanciato alcuni tra i maggiori registi italiani, ha dato vita a programmi televisivi sperimentali. La cultura la conosce bene, l’ha sempre fatta e la fa ancora. E quando dice che la nostra è una informazione di commemorazione, non lascia spazio a equivoci. Per lui il nostro Paese è formato sui caduti della prima guerra mondiale e sugli eroi del Risorgimento. “Come direbbe lo storico Emilio Gentile – chiosa – i nostri fondamenti sono mortuari”.
L’autore terrà al Festival del giornalismo culturale di Urbino una lectio dal titolo “impressionistico” – così l’ha commentata – che parlerà di coccodrilli, di persone che leggono il futuro nelle sfere di cristallo e di nuovismo. Il coccodrillo, in gergo giornalistico, è quell’articolo che si scrive con largo anticipo e che si pubblicherà alla morte di un personaggio, di norma ben conosciuto. Il suo uso è un abuso che Moscati denuncia per tutta la cultura che passa nei media italiani. “Se si sfogliano – spiega – le pagine culturali dei quotidiani, dei settimanali, se si guardano i programmi tv si nota un’abbondanza di commemorazione per chi se ne va. Sono pagine riempite con i ricordi, di un rimpianto molto spesso giusto e articolato. Ma quel che si nota davvero è una ripetizione, negli anni, che sa di nostalgia e attaccamento al passato”. E che denota, in tutte quelle parole dedicate alla scomparsa, la necessità di assolverci dalla nostra realtà. “I giornali ne sono pieni – continua – forse perché oggi mancano i giusti riferimenti”.
È proprio qui, nella mancanza di punti solidi, che subentra il nuovismo. “Ovunque – spiega ancora Moscati – troviamo cose che sanno di novità. Provengono soprattutto dagli Stati Uniti e finiscono per diventare per noi un focus obbligatorio. I media, ma anche il cinema italiano, da molti anni guardano laggiù come a una guida. Stiamo riempiendo il vuoto che abbiamo con riferimenti che provengono da una cultura che ha sicuramente cose da raccontare, ma stiamo dimenticando la nostra, la forza delle nostre radici, delle nostre tradizioni”. Il motivo? Per lui siamo sostanzialmente impreparati. E forse lo siamo sempre di più. “Basta guardare – prosegue – a quanto spazio viene dedicato a questo modo di costruire, che tiene forse in piedi la fortuna del mercato, ma che somiglia più a consigli per gli acquisti”.
Il riferimento, non troppo lontano, è rivolto in particolare agli scrittori. A quelli che c’erano, al centro di quegli articoli dedicati al defunto e al compianto, e a quelli che dovrebbero esserci e non ci sono. “Gli editori – dice – lavorano sulla promozione dei giovani autori, ma non sempre li cercano. Affidano loro un compito, una formula di consumo. E così abbiamo tantissime collane letterarie e concorsi che fioccano come mai successo prima. Ma i premi Strega muoiono uno dopo l’altro, la loro gloria è effimera”. E il risultato è una intellettualità che non sta in piedi da sola. “Come direbbe Gillo Dorfles, un fattoide, qualcosa che non esiste ma si costruisce nelle intenzioni. I risultati non confortano. Confermano, piuttosto, la solitudine, la chiusura e l’empasse della cultura”.
Digerita la suggestione iniziale, insomma, attorno a sé Moscati non vede che fallimenti clamorosi: “Non vedo scrittori – spiega – di qualità risoluta e indiscussa. Qualche libro, in fondo si potrebbe anche saltare”.
Moscati, però, si dice ottimista. E alla domanda se e cosa allora potrebbe salvare la cultura da una copia in carta carbone riproposta di anno in anno risponde che è necessaria una maggiore ricerca. “Tutto sommato – dice – i giornali passano un buon momento. Le maggiori denunce della condizione del nostro Stato vengono dai giornalisti. A smascherare la cattiva politica, la gestione degli enti, la burocrazia, sono stati i giornali. Sia quelli di sinistra, sia quelli più moderati, hanno capito il nostro senso di smarrimento. Hanno mostrato la gracilità di questo Paese e l’uso che se n’è fatto”.
Un barlume di speranza potrebbe quindi esserci. “Stiamo invertendo la rotta, ma ci vuole tempo”. Perché leggere una pagina culturale può ancora avere il suo senso, ma solo se è ben fatta. “Quando la funzione è di reale scoperta – conclude – e non si tratta di cose note, né del trionfalismo di portare acqua al proprio mulino, allora va bene. Ma succede raramente”.
Ringrazio per l’articolo sulle mie “provocazioni” nel corso di una telefonata. Le confermo. Ma le parole scritte risultano più perentorie di quanto i miei paradossi volessero essere. Ma una precisazione la debbo fare. Intendevo non il filoso Giovanni Gentile ma lo storico Emilio Gentile che fascista non è, al contrario, e ha scritto i volumi sulle origini, le radici e le caratteristiche del fascismo. Grazie, cordiali saluti.