URBINO – Anche nell’era digitale gli intellettuali continuano a parlare di sé e per sé. E così la cultura torna sullo stesso errore già commesso dalla carta stampata, condannandosi a restare una riserva indiana. Lascia l’amaro in bocca la lectio di Piero Dorfles sulla ‘divergenza culturale’ tenuta nella prima giornata del Festival del giornalismo culturale di Urbino. È il sapore di un’occasione mancata. Così il critico letterario e conduttore, alla sua terza partecipazione al festival, descrive l’esito dell’incontro tra il web e la cultura. Parla di divergenza, di uno sposalizio perso, ponendosi in netta controtendenza rispetto a quanti, dopo la teoria di Henry Jenkins, hanno iniziato a parlare di cultura convergente.
Le due culture. Citando Apocalittici e Integrati di Umberto Eco, Dorfles tenta di sviluppare una riflessione obiettiva, che lasci da parte l’ottimismo o il pessimismo più nero sulle potenzialità della Rete: “Quella che sembrava profilarsi come una straordinaria forma di democratizzazione – sostiene il critico – ha lasciato fuori spazi come quello della cultura e della politica”. L’enorme apertura offerta dallo sviluppo tecnologico e dal web doveva essere la chiave per superare quella che per secoli è stata la divisione tra il mondo dei colti e non, portando alla nascita e al diffondersi di una cultura collettiva. Di renderli consapevoli e partecipi del proprio destino sociale e politico. Non solo ciò non è accaduto, ma, fa notare il critico, benché sul web siano nati blog o riviste culturali, tali realtà rimangono chiuse in un mondo che parla di sé e per sé, proprio come è successo con la carta stampata. Per gli altri, quei tre quarti d’italiani che non hanno tempo di leggere, c’è la cultura di massa. Una cultura nient’affatto minore, ma che comunque non può sostituire la prima.
La colpa collettiva. Quando “l’oligarchia intellettuale” prova a divulgare la cultura, anche attraverso la televisione, mezzo popolare per antonomasia, non riesce a farsi capire dal grande pubblico. Manca la sintonia: “Non riesce neppure a usare una grammatica adeguata” ha detto Dorfles riferendosi a chi fa cultura in televisione “Ma così l’intellettuale mantiene il sapere per sé e viene meno alla sua funzione”, ha concluso Dorfles . Il problema è dunque la divulgazione: lo spazio della cultura nelle redazioni si è compresso. La redazione culturale non esiste più. Le pagine di costume, spettacolo e letteratura non sono più affidate a professionisti specializzati nei vari settori. E ciò rischia di produrre un “chiacchiericcio” controproducente confinato in spazi minuscoli come piccoli box.
Ritrovare il proprio posto.“La cultura deve avere un proprio spazio e la si può fare ovunque” secondo Dorfles. Per arrivare a questo obiettivo è fondamentale l’intervento del giornalista culturale, che è una figura specializzata, in grado di usare quella sintassi necessaria alla comprensione del grande pubblico. Il suo compito è quello di mediare i contenuti e di avvicinarli ai lettori perché possano fruirne. Nonostante l’emergere di nuovi influencer dal web, il giornalismo culturale può ancora offrire un servizio: deve cercare, fornire e gerarchizzare le informazioni. Mentre “per distribuirlo ci vuole intelligenza, capacità e onestà” sostiene il critico. Deve essere in grado di recensire un libro o un film, di spiegare una mostra d’arte, come anche di parlare negativamente di ciò che recensisce. La sfida del futuro si gioca sulla capacità che avrà la cultura di “uscire dalla zona privilegiata, dalla terza pagina e dai 1500 lettori”.
Video a cura di Rita Rapisardi e Claudio Zago