All’origine del polo industriale di Fermignano: quattro aziende, quattro storie di vita lavorativa

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di ANDREA PERINI

Un edificio sventrato dal ‘nevone del 2012’ è quello che resta del Lanificio Carotti, una delle quattro industrie che dal primo dopoguerra alla fine degli anni Ottanta ha reso Fermignano la ‘piccola Milano delle Marche’. Delle altre tre – la Fornace di Calpino, il Pastificio Falasconi e il Tabacchificio Donati – oggi, fisicamente, rimane ben poco, a parte le memorie di chi ha passato gran parte della propria vita tra mattoni, farina o foglie di tabacco.
Il Ducato è andato a cercare alcuni degli ex operai di queste fabbriche, gli ultimi che conservano una memoria diretta di quell’epoca, per raccontare come si viveva e come si lavorava in quegli anni caratterizzati industrie all’avanguardia, bassa disoccupazione e benessere diffuso.

Bruno Clementi, Liliana Sartori, Elso Paradisi e Cellina Beligni sono i protagonisti delle nostre storie: sono nati tutti prima dello scoppio del secondo conflitto mondiale e tutti hanno vissuto in prima linea la creazione, l’evoluzione tecnologica e infine la chiusura di quelle quattro aziende che per oltre 60 anni hanno dato lavoro a un’intera comunità. Basti pensare che negli anni Cinquanta le quattro imprese impiegavano in totale 560 persone su una popolazione di 4.865 abitanti, come rilevata dal censimento Istat del 1951. In pratica, almeno un membro di ogni nucleo familiare fermignanese lavorava in una delle quattro industrie.

Giulio Finocchi, Cavaliere Ufficiale

Giulio Finocchi, appassionato di storia locale

Grazie alla ferrovia, alla corrente elettrica – Fermignano dopo Cagli è stato il secondo comune della provincia ad aver impianti per la sua produzione – e all’aumento costante della popolazione, nel XX secolo Fermignano si è trasformato da piccolo borgo di campagna a polo industriale. “L’insediamento produttivo è nato nel 1963 – racconta Giulio Finocchi, ex dipendente regionale, collezionista e appassionato di storia locale – quando il Comune, assieme all’Università di Urbino, alla Camera di Commercio e al Comune di Urbino, ha dato vita al Consorzio industriale del Medio Metauro”. Un’eredità visibile ancora oggi: Fermignano rappresenta infatti il terzo nucleo produttivo della provincia per numero di imprese, dopo Pesaro e Fano, grazie alla presenza nel proprio territorio di oltre 60 aziende, alcune delle quali operano a livello internazionale come Tvs, che produce pentole e padelle, e Imab Group, specializzata in arredamenti.

IL LANIFICIO CAROTTI – OVATTA NELLE ORECCHIE E RUMORI ASSORDANTI

Cellina Beligni, ex dipendente del lanificio Carotti

Cellina Beligni è nata nel 1932 e dall’età di 15 anni fino a oltre 50 ha lavorato al Lanificio Carotti, la prima grande realtà industriale sorta a Fermignano. “L’ovatta nelle orecchie, il rumore assordante dell’ordito e quella lana così morbida – ricorda quando le chiediamo come fosse il suo lavoro – Ancora oggi mi capita di sognare quei telai”.
Lei era addetta alla tessitura e per più di 40 anni ha controllato che i fili della trama e dell’ordito non si spezzassero. “Non c’erano allarmi elettronici – racconta – e bisognava essere sempre molto concentrati perché se non ci si accorgeva subito della rottura, poi si doveva rimediare manualmente. Producevamo filato e tessuti ma anche coperte, morbidissime, e matasse. Avevamo sette colori e diverse fantasie sia a quadri che a righe. Ricordo che il periodo di apprendistato è stato molto lungo e i primi stipendi molto bassi: guadagnavo nove lire l’ora”.
“Di norma c’erano due turni – spiega Cellina – ma quando arrivava un ordine dall’esercito, a cui spedivamo le coperte, lavoravamo anche di notte. Il reparto era rumorosissimo: per parlare dovevamo fare il mimo o aspettare il suono della sirena per la pausa pranzo”.

“La storia del Lanificio inizia nel 1914 quando Augusto Carotti – racconta Giulio Finocchi – acquistò l’ex cartiera dai conti Castelbarco Albani. La fabbrica era composta da sette ampi saloni: al piano terra c’erano due turbine idrauliche che garantivano l’elettricità, nei tre saloni del primo piano c’erano invece i reparti nei quali si cardava, filava e torceva la lana, i locali del secondo piano erano invece adibiti a magazzino e tessitura. Lo stabilimento, che era partito con pochi operai, nel 1919 ne contava già cento. Nel 1946 il numero degli addetti raggiunse il livello più alto, con oltre 230 operai, e un anno dopo l’azienda creò anche un reparto di tessitura nel nuovo stabile costruito sulle rive del Metauro per utilizzare l’acqua per la tintura, la purgatura e i lavaggi delle diverse lane in gran parte provenienti dal territorio circostante”.

LA FORNACE DI CALPINO – TERRA INFUOCATA E FIASCHETTE DI VINO

Elso Paradisi, ex dipendente della Fornace di Calpino

Elso Paradisi, ex dipendente della Fornace di Calpino

“La terra era trasportata con i carrelli fin dentro lo stabilimento. Una volta scaricata, da qui usciva sotto forma di mattoni e travi. Quello alla fornace era un lavoro duro, sempre esposti a un caldo insopportabile”. Elso Paradisi, nato nel 1926, ha lavorato per 22 anni nella fornace di Calpino, da quando ne aveva 36. Il suo compito era impacchettare i laterizi per la spedizione, ma all’occorrenza “il padrone ci utilizzava dove c’era più bisogno. Con lui la giornata non era mai persa, anche quando c’era poco lavoro. Era un bravo padrone e lo stipendio era abbastanza buono: io prendevo 50mila lire al mese”. Attiva fin dal 1885, la fornace di Calpino dopo la Seconda guerra mondiale ha sempre dato lavoro a più di 50 operai “perché fino agli anni Ottanta la richiesta di mattoni era molto alta. Ricordo che la terra veniva messa in stampi che poi finivano dentro un forno. La terra – racconta Elso – diventava rossa come il fuoco e chi era addetto al controllo e allo spostamento degli stampi si bruciava spesso le mani e doveva indossare dei cappucci per evitare di ustionarsi il viso. Una volta cotti, i mattoni venivano bagnati e poi messi a essiccare. Una volta pronti, noi li raggruppavamo e li preparavamo per la spedizione. La fornace non chiudeva mai: i tre fuochisti ruotavano per mantenere i forni sempre accesi mentre noi facevamo due turni. Avevamo delle attrezzature all’avanguardia quando molte delle fornaci del territorio ancora utilizzavano le carriole in legno”.
La vita all’interno della fornace aveva però anche qualche comfort: “Tutti avevamo una fiaschetta con cui andavamo a prendere il vino. Il padrone per evitare che uscissimo dalla fornace aveva portato le damigiane al suo interno. Alcune volte qualcuno ha anche bevuto un po’ troppo. Si lavorava tanto, ma c’era sempre una grande allegria”.

La fornace di Calpino ha chiuso nel 1985, “ma per un lungo periodo – sottolinea Giulio Finocchi – è stata una delle più innovative del territorio. Ad esempio, si usava il metodo Falasconi, che prende il nome dal suo inventore Luigi, uno dei primi proprietari dello stabilimento, e che consisteva nel muovere continuamente i mattoni durante la cottura, per cuocerli più uniformemente, risparmiando sul carbone . La materia prima veniva estratta dai terreni vicini, Cà Spacciolo e Calpino e i laterizi venivano venduti non solo nelle Marche, ma anche a Ferrara, Ravenna, Bologna e Forlì”. Oggi, della fornace non rimane altro che un capannone cadente in un campo circondato da una ringhiera arrugginita.

IL PASTIFICIO FALASCONI – IN COMPETIZIONE CON BUITONI

Bruno Clementi, ex dipendete del pastificio Falasconi

Bruno Clementi, ex dipendente del pastificio Falasconi

Bruno Clementi per più di 40 anni ha lavorato nel mulino del pastificio Falasconi, una delle più grandi realtà dell’epoca tanto da competere con il più famoso marchio Buitoni, con il quale poi avrebbe aperto un altro stabilimento a Roma. “La pasta per me non aveva segreti – ricorda – riuscivo a riconoscerla semplicemente toccandola”. Bruno ha iniziato a 17 anni e ha visto e vissuto l’intera parabola produttiva del pastificio. “La mia famiglia ha sempre lavorato qui – racconta – a partire da mio nonno e mio padre. Ricordo che quando sono stato assunto, di fronte all’azienda c’era la fila di birocci dei contadini che venivano a portare il proprio grano. Con loro, all’inizio c’era una sorta di baratto: loro portavano il grano e ottenevano in cambio il corrispettivo peso in pasta. Con il tempo poi è cambiato: il grano arrivava dalla Puglia e, oltre alla pasta fresca, avevamo iniziato a produrre anche quella all’uovo, usando le uova che arrivavano congelate da Urbania. Ne producevamo 86 tipi diversi e io li conoscevo tutti, tanto che i nuovi venivano a chiedere consiglio a me per smistarla.”.
“L’azienda non si fermava mai. Avevamo tre turni – aggiunge Bruno – dalle 6 alle 14, dalle 14 alle 22 e dalle 22 alle 6. Nei turni di notte potevamo anche cucinare. Lo stipendio era buono: ricordo che all’inizio prendevo 37mila lire al mese e la ditta ogni tanto ci regalava due, tre chili di pasta. Per il pastificio e per mia moglie ho persino rinunciato a giocare nel Genoa che mi aveva scelto come portiere dopo un provino”.

“Il pastificio Falasconi è nato nel 1897 in via Mazzini – afferma Giulio Finocchi – operando in una prima fase come mulino, dotato di un impianto a cilindri e otto operai. Nel periodo di massimo splendore, arrivava a produrre 150 quintali di farina e semolino al giorno. Poi venne il pastificio che, negli anni Cinquanta, dava lavoro a circa 80 persone. Possedeva anche l’unico telefono di Fermignano e molte persone andavano lì per fare delle chiamate”.
Oggi del pastificio Falasconi non rimane traccia: “Il mulino chiuse nel 1953, mentre la ditta vent’anni dopo. Nel 1985 l’intero stabile è stato demolito per lasciar spazio a un complesso residenziale e commerciale”.

IL TABACCHIFICIO DONATI – FOGLIE GIALLE, POROSE E PROFUMATE

Liliana Sartori, ex dipedentente del Tabacchificio Donati

Liliana Sartori, ex addetta del Tabacchificio Donati

“L’odore acido della foglia fresca di tabacco. Il suo colore giallo. La sua porosità. Ho lavorato per 16 anni nel tabacchificio e ancora ricordo quanta polvere c’era”. Liliana Sartori oggi ha 86 anni, ma gli odori e i colori dei suoi 16 anni passati alla cernita del tabacco non li ha dimenticati. “Quando ho iniziato era il 1948 ed ero appena diciottenne. A seconda dell’annata si lavorava quattro o sei mesi, otto ore al giorno dalle 8 alle 18 con un’ora e mezza di pausa pranzo. Io dividevo il tabacco in quattro qualità dalla migliore, la prima, alla peggiore, la quarta. Il tabacco arrivava con i birocci dalle campagne vicine”.

Dettaglio Liliana Sartori

Arrivava fresco e veniva fatto essiccare in un capanno pieno di tubi molto caldi. Se la stagione non era abbastanza umida si cospargevano di acqua i tubi in modo da rendere il tabacco più morbido. “Avevamo una quota giornaliera da raggiungere – spiega Liliana – pari a 35 chili al giorno, ma non tutte riuscivano, specie le più inesperte o le più anziane. Una volta scelte, le foglie venivano confezionate in pacchetti con cui riempivamo delle botti. Ricordo che per non sprecare la quarta scelta la mettevamo come base in ogni botte. In questo modo i controllori non notavano la differenza perché facevano solo due tagli per ogni botte e mai nella parte bassa. La foglia migliore era quella più gialla, più porosa e più profumata”.
La cernita non è stato l’unico compito svolto da Liliana: “Alcune volte mi spostavano al ‘verde’. Mi arrampicavo a sette metri di altezza dove legavo delle corde, alle quali le mie colleghe legavano il tabacco e io lo tiravo su per farlo poi essiccare. La paga non era un granché: le prime buste erano di 18, 20mila lire. Si lavorava tanto per portare a casa poco”.

Il tabacchificio era costituito da due capannoni, posizionati uno tra la linea ferroviaria e la strada provinciale e l’altro di fronte al piano del Cucco, che ospitavano un semenzaio, uno spazio adibito essiccazione, uno alla scelta e uno per riempire le botti. “A Fermignano il tabacchificio – racconta Finocchi – iniziò la propria attività nel 1928 e nel suo punto di massimo splendore contava cento lavoratori, per la maggior parte donne, eccetto i fuochisti”.
Che fine ha fatto la struttura? Oggi di tutto il complesso rimane solo un capannone su viale Kennedy. Dove c’era il semenzaio negli anni Ottanta sono state costruite abitazioni, mentre al posto del secondo capannone oggi c’è la struttura in abbandono dell’ex Lar.

LE LATTAIE “PORTA A PORTA”

Serafino Pizzoni

Serafino Pizzoni, ex guardia comunale di Fermignano

Negli stessi anni, anche le attività artigianali iniziarono ad assumere forme più organizzate, come nel caso delle lattaie. Nel 1954, Serafino Pizzoni, che allora era una guardia comunale addetta ai controlli, definì il primo regolamento igienico per chi produceva e vendeva il latte porta a porta. “Le lattaie arrivavano dalle campagne ogni giorno – racconta Pizzoni, oggi 94enne – portando in paese più di cento litri al giorno. Arrivavano con i loro bidoni di metallo, belli lucidi, la divisa bianca e i misurini puliti. Inoltre il regolamento prevedeva che anche le mucche dovessero essere lavate regolarmente”. Ogni famiglia lasciava un pentolino, una bottiglia nella soglia di casa per farli riempire e ciascuna lattaia aveva la propria zona di competenza. “Solo anni dopo – ricorda Pizzoni – arrivò la latteria Bonci in corso Bramante, l’unica ad avere la licenza per venderlo. E per la grande distribuzione bisognò aspettare fino agli anni Settanta”.