Constance, fuggita dall’inferno della prostituzione. La mano tesa dei volontari dell’antitratta

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Constance, ex vittima della tratta, si è rifatta una vita grazie al Progetto Roxanne
di ANTONELLA MARIA ANGELA MAUTONE
L’INSERIMENTO LAVORATIVO – BROCRAZIA E FINANZIAMENTI, UN SISTEMA PRECARIO
CLAUDIO, DA CLIENTE A “SALVATORE”

Constance, 25 anni, è una delle milioni di donne che con l’inganno, con la promessa di un lavoro o di un futuro migliore, sono state portate in Italia. Una volta arrivate sono costrette a prostituirsi, come nel suo caso, per una decina di euro.

Per Constance arrivare in Italia è una questione di vita o di morte. Viene dalla Nigeria, è malata di cuore fin da piccola, ma nemmeno lei sa di cosa soffre. La sua famiglia decide di farla partire, affidandosi all’unica persona che può assicurarle la partenza, una donna del posto, la stessa che diventerà sua sfruttatrice e che in cambio di denaro accetta di portarla in Italia.

È una cosa che accade spesso, in Libia le ragazze ci arrivano perché hanno stretto, nel loro villaggio natale, un patto con le “madame”: donne contattate dalle famiglie delle ragazze, organizzano una sorta di “rito” con cui legano le vittima a sé.  Con questa cerimonia la madame riesce a tal punto a soggiogare la ragazza, una catena psicologica, in molti casi la violazione del patto ha portato a conseguenze molto serie, come l’impazzimento. O addirittura alla morte della ragazza o per uno dei suoi famigliari. La vittima deve risarcire il debito contratto, rispettare le decisioni della donna e non tradirne la fiducia raccontando qualcosa alle forze dell’ordine.

Non tutte le ragazze si rendono conto, almeno in un primo momento, che per loro si apre un percorso verso la schiavitù. Lo scoprono dopo, quando sono nel deserto, o nelle terribili Connection House, in Libia. Tenute prigioniere e costrette a prostituirsi fino a quando la famiglia non è disposta a pagare un riscatto che le consentirà di imbarcarsi alla volta dell’Italia.

Constance aspetta per due settimane sulla costa libica , “in un posto vicino al mare”, racconta, che un barcone la porti via. Così rimane insieme ad altre ragazze, con pochissimo cibo a disposizione e senza acqua da bere. Racconta che per dissetarsi lei e i suoi compagni aspettano che piova, “Bevendo l’acqua che si raccoglie nelle foglie dei cespugli o quella a terra, nelle pozzanghere”. Il calvario dura fino all’arrivo dell’imbarcazione che la porta a Lampedusa. Poi il trasferimento in un campo di Castel Volturno.

La madame le costringe ad uscire da lì: “Venite fuori o vi riportiamo in Nigeria”. Così escono: è venuto il momento per Costance di ripagare il debito di “Voleva 15.000 euro, dice Constance”. Fuggita da un inferno nel suo Paese, piomba in un nuovo, più nero incubo. Per pagare il suo debito è costretta a prostituirsi, quelli che le fanno visita le pagano ogni prestazione 15 euro. Sembra un prezzo basso, perché lei è carne da macello. La madame le porta subito via ogni centesimo. Per riuscire a ripagare il suo debito dovrebbe andare con 1.000 uomini. Lei però non ce la fa: “Glielo dicevo, non posso farlo, sono malata di cuore. Ho chiesto più volte al marito della madame di essere portata in ospedale” inutilmente.

Si salva grazie all’intervento del fratello di un amico della sua aguzzina che una notte, di nascosto, la porta davanti ad una stazione dei carabinieri, raccomandandole di non dire nulla a nessuno, perché anche lui ha paura della madame. I carabinieri la conducono in ospedale dove i medici le spiegano che ha bisogno di un cuore nuovo. Constance viene portata prima in un centro d’accoglienza a Rimini, da lì, dopo la chiusura del centro, arriva a Roma. Qui incontra i volontari del servizio Roxanne che da anni si occupa di prostituzione, viene ospitata da un pastore della comunità evangelica. Ora è in lista d’attesa per un trapianto.

Roxanne, il rifugio dalla tratta

Il servizio Roxanne, diretto dalla dottoressa Daniela Moretti, è una delle tante associazioni che dai primi anni 2000 si occupa di contrastare il fenomeno della tratta della prostituzione nel Comune di Roma. Il progetto è multi-agenzia, cioè composto da una rete di cooperative e associazioni che lavora per assicurare protezione, reinserimento sociale e lavorativo a donne vittime del traffico sessuale. Luca Scopetti, 36 anni, è il coordinatore delle unità di contatto, quelle che si occupano di ‘sorvegliare’ la Capitale sia nelle ore diurne che in quelle notturne: escono in media 22 volte al mese per incontrare le prostitute in strada. Fa parte della cooperativa Parsec, che dagli anni ‘80 si occupa dei problemi legati alle dipendenze e alla prostituzione ed è composta da tre mediatrici culturali (una nigeriana, un’ inglese e una rumena) e operatori sociali, tra questi psicologi, assistenti sociali ed educatori.

Con in mano un termos di tè o caffè, i ragazzi delle unità di strada parcheggiano poco distante dal luogo in cui si trovano le ragazze, e le avvicinano con un sorriso.  Le prostitute in strada li conoscono bene: non distribuiscono solo “qualche parola di conforto”, come racconta Luca, ma anche depliant che spiegano i progetti e i servizi offerti da Roxanne. Poi il materiale più importante: quello di carattere sanitario, condom, profilattici femminili, saponi, detergenti. Gli operatori agiscono nell’ottica della “riduzione del danno”: cercano cioè di rendere più consapevoli le persone dei loro diritti e soprattutto tentano di fermare la diffusione delle malattie sessualmente trasmissibili. Solo dopo questa prima forma di contatto arriva, se arriva, il tentativo di portare via le ragazze dalla strada. “Tutte le ragazze che noi incontriamo dichiarano che sono in strada per libera scelta. Noi cerchiamo di far crescere in loro la consapevolezza di quello che stanno vivendo. Solo una piccolissima parte delle ragazze che contattiamo poi fa richiesta di emersione dalla tratta”, racconta Luca. “La maggior parte si rivolge allo sportello per avere informazioni di carattere sanitario”.

Lavorando tutti i giorni con queste persone, Luca non pensa che una possibile soluzione si possa trovare nelle sanzioni amministrative ai clienti, come ha fatto il Comune di Roma qualche anno fa. “La prostituzione è un fenomeno, quindi se un’amministrazione comunale fa un’ordinanza all’interno del territorio, il racket si sposta in un altro quartiere. L’Amministrazione capitolina se n’è resa conto perché dopo qualche settimana il provvedimento non è stato riconfermato. Anche in termini di cultura cittadina sulla prostituzione non ha portato a risultati apprezzabili, perché si colpevolizza sia chi si prostituisce, chi è obbligato a farlo e i clienti”.

Lo sportello

Le ragazze o i ragazzi che si prostituiscono possono recarsi allo sportello Roxanne per avere un aiuto che, va dalla semplice richiesta di assistenza di tipo sanitario, alla scelta di abbandonare la strada. Da una decina di anni lo sportello è gestito da Federica Gasperi.

Federica ci spiega quali sono le prime cose che gli operatori fanno quando una persona si presenta davanti a loro: “Di solito ci bastano un paio di colloqui  per capire se sono vittime di tratta, cerchiamo di non farne troppi per non stressarle ulteriormente, per loro è un trauma raccontare la loro esperienza”. Ormai sono poche le ragazze che arrivano da sole o inviate dagli ospedali,  dai servizi sociali,  dalle unità di strada e  dalle forze di polizia.

Lo sfruttamento avviene anche all'interno dei centri di accoglienza. Gli sfruttatori le prelevano di giorno per farle prostituire e le riportano per la notte

Negli ultimi tempi, infatti, le segnalazioni di possibili vittime di tratta sono fatte gli operatori all’interno dei Cas (centri di accoglienza straordinaria) e degli Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), o all’interno dei centri per minori. “Molte ragazze possono essere sfruttate sessualmente dalle organizzazioni criminali anche all’interno di queste strutture, perché sono fortemente sovraffollate e una persona è libera di entrare e di uscire. Solo quando qualcuno si allontana per qualche giorno vengono presi dei provvedimenti. Così gli sfruttatori le prelevano dai centri e le fanno prostituire di giorno, riportandole per la notte”, racconta Federica.

“Il riconoscimento di una possibile vittima di tratta dovrebbe essere fatto subito, ” ma questo è impossibile anche perché la presenza di anche 200 o più ospiti rende vana la presenza degli educatori, molte volte impreparati perché in molti casi non si sono mai occupati di immigrazione” conclude.

Del problema deve essersene accorto anche il Dipartimento delle Pari Opportunità, che solo nel 2016 ha approvato un Piano nazionale antitratta che prevede, tra le altre cose, la formazione obbligatoria per amministrazioni e pubblici ufficiali sulle questioni inerenti alla tratta di esseri umani.

Il sistema della tratta viene fermato grazie all’uso dell’articolo 18  del testo unico dell’immigrazione. Consiste nel rilascio, da parte della questura, di uno speciale permesso di soggiorno di tipo umanitario per lo straniero oggetto di violenza o grave sfruttamento, se correlato all’impegno a partecipare a programmi di assistenza e integrazione sociale. Può essere applicato in due modi: tramite il percorso  giudiziario, quando la persona decide di denunciare la sua condizione alle autorità, partecipando alle indagini contro i trafficanti, e tramite il percorso sociale: quando sono le associazioni antitratta a presentare una relazione-querela alla magistratura al posto della vittima.

L’articolo 18 non è il solo percorso che consente ad una persona la possibilità di avere il permesso di soggiorno: esiste anche la protezione internazionale. Tramite questa le persona viene ascoltata da una commissione territoriale e, raccontando la sua esperienza, ottiene lo status di rifugiato senza denunciare i suoi sfruttatori. In questo caso il discorso della lotta alla tratta viene meno. Federica ci dice che per loro la cosa importante è mettere al sicuro le ragazze, quindi anche se decidono di non denunciare vengono accolte nelle loro strutture.

L’Oim, organizzazione internazionale per le migrazioni, fornisce alcuni dati sulle vittime di tratta incontrate, identificate e assistite nei luoghi di sbarco e di assistenza. Nel 2016 le potenziali vittime di tratta informate sono state 8.277, quelle identificate 6.599. Le vittime che tramite segnalazione alle autorità o alla rete antitratta riescono effettivamente ad essere aiutate sono state 425, di queste 251 sono minorenni. Le denunce nello stesso anno sono 78, mentre le persone segnalate dalle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale sono 188.

Una casa e la prima indipendenza

Dopo l’invio allo sportello le vittime di tratta accolte dal servizio Roxanne vengono introdotte all’interno di un percorso che comprende una “casa di fuga”, e successivamente una casa di semiautonomia, dove sono più autonome. Queste due diverse tipologie di strutture vengono gestite da due cooperative, Magliana 80 e Il Cammino. Ogni appartamento ha a disposizione sei posti ciascuno per le vittime di tratta.
La responsabile di una di queste case, Adriana Geri, ci spiega che questi alloggi sono in tutto e per tutto case normali che ospitano gratuitamente le ragazze. In aggiunta hanno l’assistenza medica e una paghetta settimanale di circa 40 euro, ma per “accrescere il loro senso di autonomia” viene tolta non appena riescono a trovare un lavoro. Le ragazze non possono né ricevere visite, né possono essere accompagnate nelle vicinanze, perché gli appartamenti sono a indirizzo segreto. A differenza delle case di fuga gli operatori sono presenti solo di sera, quando è più facile incontrare le ragazze, spesso assenti di giorno perché fanno formazione o hanno un lavoro.

Adriana ci dice che le convivenze a volte sono complicate, anche perché vengono accolte persone con situazioni molto difficili alle spalle che in alcuni casi non accettano un percorso di psicoterapia, una soluzione molto lontana dalla loro cultura di provenienza.

"Con il tempo tra te e loro si crea un rapporto di grande fiducia, ti raccontano cose che non avresti mai il coraggio di chiedere"

Ad Adriana trema la voce mentre, parlando delle sue ospiti, racconta di una ragazza giovanissima a cui uno dei suoi sfruttatori aveva sparato. È stata operata molte volte e quando il servizio Roxanne l’ha presa in carico aveva un buco alla gola: per riuscire a parlare deve coprirlo con le mani per far vibrare le corde vocali.  “Con il tempo tra te e loro si crea un rapporto di grande fiducia, ti raccontano cose che non avresti mai il coraggio di chiedere. Sono storie molto toccanti. Allo stesso tempo continui a seguirle anche quando sono andate via, ti mostrano le risorse che riescono a tirare fuori quando gliene viene data la possibilità. La maggior parte delle storie va a buon fine – qui Adriana si illumina – e tranne che per alcuni casi di persone sparite durante il percorso, la maggior parte delle donne sta bene ed è andata avanti con la loro vita. Mi ritengo molto soddisfatta dei risultati raggiunti”.

L’inserimento lavorativo

“Aiutiamo le ragazze a trovare la loro strada” così esordisce Carmela Morabito, la coordinatrice di Proins, nel raccontare l’ultimo anello del progetto Roxanne, quello che aiuta le ragazze ad inserirsi nel mondo del lavoro.

Dopo aver ottenuto tutti i documenti e aver iniziato un corso di italiano,  le ragazze vengono segnalate alle addette del Proins. Comincia così una prima fase di orientamento per capire se la persona è pronta ad intraprendere un percorso che va da un primo monitoraggio delle competenze possedute al tutoraggio durante il tirocinio.

Racconta Carmela: “Insegniamo loro come ci si presenta durante un colloquio di lavoro, come ci si veste, qualcuna lo sa già, altre, quelle meno scolarizzate, possono incontrare dei problemi in questo senso”. Risulta più difficile l’inserimento delle ragazze provenienti dall’Africa, perché per loro è più complicato adattarsi alle nostre abitudini e imparare la lingua italiana. Questi non sono però gli unici motivi: “Abbiamo riscontrato evidenti problemi di razzismo, è capitato che alcune aziende rifiutassero di prendere ragazze nere, preferivano assumere per il tirocinio ragazze rumene. Non è sempre così, ci sono casi in cui le aziende non hanno avuto problemi ad inserire donne di colore”.

Solitamente le imprese scelte per il tirocinio appartengono al campo della ristorazione, delle acconciature,  della pasticceria, della sartoria, delle pulizie.

Altre volte le ragazze sono  inserite in settori diversi, proprio perché Proins cerca di far emergere le capacità individuali: “Abbiamo avuto una persona che è riuscita ad ottenere un diploma in ragioneria ed è entrata in uno studio di commercialisti” racconta Carmela. Le ragazze percepiscono un rimborso spese di 420 euro al mese, utile per iniziare ad avere un minimo di  autonomia.

Carmela è sicura che anche se le loro ospiti non dovessero trovare subito un lavoro non correrebbero il rischio di ricadere di nuovo nella tratta: “Può succedere solo quando c’è una forte pressione familiare per ottenere subito dei soldi. Chi entra nel sistema di accoglienza ha vitto e alloggio e il necessario per sopravvivere. Esiste anche la determinazione a volere una vita migliore, una motivazione che va alimentata proprio grazie al lavoro degli operatori. È importante che capiscano un concetto: sei tu che devi trovare un futuro migliore qui, solo così lo avranno anche i tuoi famigliari”.

Burocrazia e finanziamenti: un sistema precario

A Roma, nonostante l’antitratta lavori ormai da 20 anni, non esiste una cornice istituzionale precisa, nemmeno un protocollo d’intesa tra Comune, Regione e Questura come accade in altre città come Torino e Venezia. C’è una  mancanza di collaborazione tra le diverse parti che dovrebbero unire le loro forze per combattere il sistema della tratta. Proprio questa mancanza di protocolli d’intesa fa in modo che l’articolo 18, nato proprio in Italia, venga applicato solo quando la vittima decide di denunciare. Il percorso sociale, che garantisce il permesso speciale quando è l’associazione che protegge la vittima a fare la denuncia, non viene più accettato dalla questura. Federica Gasperi, la responsabile dello sportello spiega: “Prima raccontavamo la storia ad un funzionario e alla ragazza veniva rilasciato un permesso di soggiorno sulla base della sua adesione ad un programma, al suo ingresso in una casa alla sua presa in carico dai nostri servizi. Tutto questo adesso non si fa. Anche per questo facciamo la parte dei poliziotti durante i colloqui con le ragazze, perché purtroppo dobbiamo ‘estorcere’ una denuncia dato che senza di questa la persona non sarà protetta e non potrà proseguire il suo percorso con la certezza di ottenere un permesso di soggiorno”.

La burocrazia condiziona la vita di chi cerca di uscire dalla tratta anche in altri aspetti. La permanenza media di una ragazza all’interno delle case di semiautonomia dovrebbe essere di circa due anni,  ma spesso dura più del necessario per molti motivi, uno di questi è la difficoltà avere un contratto regolare che le  garantisca almeno 25 ore settimanali di lavoro. Ottenendolo possono fare la conversione del loro permesso di soggiorno e diventare autonome. “C’è da dire che tutti gli immigrati che ora hanno il permesso di soggiorno di cinque anni, sono, per chi offre lavoro, manodopera che può tenere anche in condizioni non regolari” racconta Adriana Geri, responsabile di una delle case.“Adesso è più facile che i datori di lavoro facciano contratti a chiamata che non sono convertiti dalle Questure, lasciando le donne in una situazione di dipendenza. Ora abbiamo preso in carico una ragazza che da giugno ha ricevuto tre rinnovi di contratto a chiamata, ha una protezione sociale che la Questura non può o non vuole convertire. Non si sente garantita e l’unica protezione che ha è la casa dove riceve assistenza”conclude.

Un altro problema, non di secondaria importanza, è la precarietà del sistema. Operatrici e responsabili lavorano con bandi che durano pochissimo, l’ultimo appena dieci mesi. Questo le porta a lavorare per tante ore in più, non retribuite.

Esiste una carenza dei posti disponibili, non solo a Roma o nel Lazio, ma  su tutto il territorio nazionale. Sono tante le persone identificate come vittime di tratta all’interno dei Cas e degli Sprar che vorrebbero accedere a un percorso di protezione e che non possono farlo.

Per finire la precarietà finanziaria. Il progetto Roxanne dipende completamente dal Comune di Roma. Gli stessi operatori denunciano come l’ultimo bando, utilizzando i fondi 2017 e 2018, è riuscito a finanziare i soli servizi di contatto (unità di strada) e di accoglienza residenziale per dieci mesi. Da settembre 2018, se non arriveranno risorse aggiuntive, il sistema antitratta di Roma Capitale sarà costretto a fermarsi. L’attuale sistema d’ intervento richiederebbe un finanziamento di almeno 1.440.000 euro all’anno ma nel bilancio 2017 e in quello 2018 erano previsti solo 980.000 euro.

Proprio a causa di una carenza fondi il servizio Proins, l’inserimento lavorativo, è momentaneamente sospeso dal 31 agosto 2017. La responsabile, Carmela Morabito, è sicura che presto uscirà un nuovo bando che dovrebbe riattivare il progetto, che permetterà di nuovo alle ragazze di trovare un lavoro che le renda autonome.

Claudio da cliente a “salvatore”

“Non è che sia così facile raccontare la mia storia, soprattutto perché non ho niente di cui vantarmi, e poi è successo tanti anni fa”. Così inizia il suo racconto di Claudio Magnabosco, giornalista e scrittore, fondatore di una rete di ex clienti di prostitute. Uno di quelli che le operatrici antitratta chiamerebbero “un salvatore”: non sono pochi i clienti che decidono di aiutare le ragazze accompagnandole ad uno sportello. Quello di Claudio forse è uno di quei casi in cui è lei, la ragazza costretta a prostituirsi, ad aver salvato lui, e non il contrario.

Diciotto anni fa Claudio, cinquantenne, separato e con figli, incontra Isoke, una prostituta nigeriana poco più che ventenne.

L’uomo da cliente ne diventa amico e poco tempo dopo capisce di star facendo facendo una “cavolata”. In lui cresce la consapevolezza che Isoke non è una persona libera ma una schiava e che con il suo comportamento è complice di un sistema di sfruttamento. Decide di interrompere la relazione e di scrivere un libro in cui racconta la sua esperienza di cliente e quella che Isoke gli ha raccontato.

Il libro ha un inaspettato successo ed è letto da tanti uomini che condividono la stessa esperienza e che iniziano a scrivergli lettere e a telefonargli per chiedergli consigli. Claudio decide di incontrarli scoprendo di avere in comune con loro problemi, difficoltà ed egoismi, preoccupazioni che tutti pensano di risolvere andando a pagamento con una ragazza, pur sapendo che non sono libere. Questo è motivo di crisi per loro. Così grazie a Claudio nasce il primo gruppo di mutuo aiuto tra ex clienti.  Dai loro racconti sono così emersi problemi di carattere affettivo, sentimentale e sessuale che non sono in grado di affrontare da soli. Secondo Claudio il problema della prostituzione c’è e non dipende da fattori come età, istruzione ed educazione: sono gli uomini ad essere gli eredi di una società patriarcale che tramanda un certo tipo di comportamento nei confronti delle donne. Quella che Claudio definisce, senza giri di parole, violenza:  “Dire che è colpa della cultura patriarcale è una verità inconfutabile ma anche una scusa”, ci dice, “ci si giustifica dicendo che si fa così perché si è sempre fatto”.

Claudio e il suo gruppo decidono di scendere in strada e invece di cercare le ragazze, come fanno le unità di strada, fermano i clienti invitandoli alle loro riunioni. Incontro dopo incontro, emergono le storie di questi uomini fragili che cercano la compagnia delle ragazze. Si sentono giudicati per questo e non riescono a sopportarlo. Altri, rendendosi conto di commettere un abuso, hanno il coraggio di chiedere aiuto, in alcuni casi anche alle loro famiglie.

“Tutti noi abbiamo avuto una guida nel nostro percorso” ci dice Claudio, “io l’ho trovata in Isoke”. La ragazza si libera dei suoi sfruttatori, rischiando quasi di essere assassinata. Picchiata a tal punto da essere diventata quasi cieca, fugge da Torino e si rifugia a casa di Claudio, in Valle d’Aosta. Il rapporto che lega Claudio e Isoke si trasforma ancora una volta: da sfruttamento diventa amicizia, dall’amicizia diventa amore. Isoke scopre che ogni fine settimana proprio a casa di Claudio vengono organizzate delle riunioni a cui partecipano gli ex clienti, portando con sé anche le ragazze di cui si sono innamorati. Queste ragazze vedono in Isoke “quella che ce l’ha fatta” e le chiedono aiuto.

Claudio con il suo lavoro cerca di cancellare la colpa di essere stati clienti, senza sminuirne le responsabilità di essere stati complici di un sistema di sfruttamento. Il gruppo inizia a farsi intervistare, a partecipare a programmi televisivi. Una piccola rivoluzione per il mondo maschile: “Abbiamo avvicinato 100.000 uomini” racconta Claudio, “capendo che il dialogo tra pari, da cliente a cliente, può produrre dei risultati importanti.

Dal racconto di Isoke, Claudio capisce che qualcosa nel sistema dell’antitratta non funziona. Quando la ragazza è fuggita dai suoi sfruttatori non ha denunciato, o meglio non ci è riuscita. Perché quando si è rivolta alla più grande associazione nazionale che si occupa di vittime di tratta, dopo tre colloqui le hanno detto che non era pronta e l’hanno lasciata sola. Secondo Claudio: “L’articolo 18 andrebbe modificato perché le ragazze non denunciano volontariamente e se lo fanno raccontano il falso solo per cercare di ottenere i documenti”. Per lui la maggior parte delle vittime riesce davvero ad uscire dalla tratta quando ha il supporto di un ex cliente che le porta ad uno sportello o da un avvocato. “Non con il legaccio di una legge che propone tutela alle ragazze solo se presentano una denuncia, per poi abbandonarle quando hanno ottenuto il permesso di soggiorno. Questo è anche il risultato della spinta operata da chi guadagna sulla tratta per “normalizzare” la prostituzione e per considerare le ragazze schiave delle sex workers”.

Claudio si chiede: “Se le prostitute sono libere e addirittura contente di fare questo mestiere, perché i clienti dovrebbero farsi dei problemi? Così cade anche la ragione di esistere di un sistema che vuole proteggerle dalla violenza maschile. Questo atteggiamento crea una risposta sociale che condiziona le ragazze e le porta ad accettare la loro condizione di sfruttate. Questo è gravissimo”.

Per lui il sistema dell’antitratta andrebbe riformato: bisognerebbe concentrarsi sui protagonisti di queste storie, i clienti e le prostitute.  Gli ex clienti sono, in fondo, gli unici che entrano davvero nelle case chiuse, non gli operatori. Perché anche se le case chiuse sono state abolite decenni fa, esistono illegalmente. Anzi Claudio prevede che diventeranno legali molto presto. Nella rete gestita da Claudio è nato un gruppo di finti clienti che avvicinano le ragazze e al momento giusto le fanno scappare per non farle tornare più sulla strada. Perché i sociologi, gli studiosi non chiedano alle ragazze di raccontare loro la verità sui loro clienti e sulle loro tragiche esperienze, non considerandole solo degli “oggetti” dei loro studi. “Le prostitute sono oggetto dei loro clienti, delle associazioni, delle preghiere dei preti, quando si inizierà a considerarle dei soggetti”?

La compagna di Claudio, Isoke, ha raccontato la sua esperienza in un libro “Le ragazze di Benin city”, presto diventato il nome dell’associazione che la coppia ha fondato insieme,  e in un saggio “Stupro a pagamento” ha denunciato i problemi legati all’articolo 18 e parlato delle responsabilità maschili. Ha fondato “Casa di Isoke”, un progetto destinato ad accogliere le ragazze nigeriane vittime di tratta. Dopo la prima struttura creata in Valle d’Aosta, ne sono seguite altre in Liguria e in Lombardia. Il 14 marzo 2018 ha vinto, insieme alle altre due finaliste, il premio, organizzato dalla regione Valle d’Aosta, “Donna dell’anno 2018”.

Concludiamo il racconto dell’antitratta con la testimonianza di Gladys, mediatrice culturale nigeriana in Italia dal 2009. Lavora per le Commissioni territoriali, si occupa di tradurre in italiano le testimonianze di chi chiede protezione all’Italia. Durante l’intervista c’è spazio anche per la sua vita privata, per i momenti dolorosi: un figlio rimasto in Nigeria che non vede più dal 2013, gli episodi di razzismo di cui a volte è vittima perché nera. Ci sono anche gli aspetti positivi: una nuova famiglia creata grazie all’incontro con un italiano, la nascita di un altro figlio, un bambino che ora ha cinque anni, simbolo di una nuova generazione che forse avrà un futuro diverso.

Questo servizio è un Progetto di fine corso per il biennio 2016-2018 dell’Istituto per la Formazione al giornalismo di Urbino (IFG), pubblicato il 28 marzo 2018