Miniera di Gavorrano, le storie delle famiglie che hanno lasciato le Marche per lavorare in Maremma

di JACOPO SALVADORI
Gavorrano-pozzo-Roma-2
PANORAMICA DEL DISTRETTO MINERARIO DI GAVORRANO
A sinistra, l'ingresso del Parco nazionale geominerario delle colline metallifere.
Al centro, il Pozzo Roma, castello di estrazione della pirite e simbolo della miniera di Gavorrano.
In alto a destra, la cava nella quale veniva prodotto il breccino, materiale usato per riempire le gallerie minerarie inutilizzate

L’acido solforico, nel centro Italia, non è soltanto la pietra filosofale del ‘900. Certo, ci si può raffinare il petrolio, produrre fertilizzanti e creare esplosivi, ma in questa storia il suo uso conta relativamente poco. Sarebbe anche riduttivo dire che è un sinonimo di lavoro, visto che alla sua realizzazione hanno lavorato e lavorano tutt’oggi centinaia di migliaia di lavoratori, impegnati sia nell’attività estrattiva, sia nell’attività industriale.

L’acido solforico è stato qualcosa di più, un collante tra due realtà scollegate: le Marche e la Maremma toscana. Per ottenere chimicamente questo prodotto, la Montecatini, una delle più importanti aziende chimiche in Italia, utilizzava due materie prime, lo zolfo e la pirite, che otteneva dallo sfruttamento delle miniere. In maremma c’era la miniera di pirite ferrosa di Gavorrano, in provincia di Grosseto, una delle più grandi e importanti a livello europeo. Nelle Marche, invece, c’era la miniera di zolfo di Cabernardi, in provincia di Ancona, che insieme a quella di Perticara, in provincia di Rimini, formavano il distretto estrattivo più importante della costa adriatica. Poi, negli anni ’50, la miniera di Cabernardi chiuse. A questo punto le strade erano due: il licenziamento o il trasferimento.

Queste sono le storie di quelle famiglie che hanno deciso di lasciarsi tutto alle spalle per iniziare una nuova vita in Toscana.


DAL CARBONE ALLA PIRITE  | IL PRETE CON LA MERCEDES | L’INDUSTRIA CHIMICA
LA MINIERA E L’OFFICINA | IL TRASFERIMENTO COME ARMA POLITICA


Mario Battazza

Dal carbone di Urbino alla pirite di Gavorrano

Mario Battazza, a Urbino, faceva il carbonaio. Poi, negli anni ’30, si spostò per un breve periodo in Maremma per lavorare alla bonifica del territorio grossetano e proprio quando era in Maremma seppe che la Montecatini stava assumendo minatori a Gavorrano. Così nel 1937, lasciò tutto, fece i bagagli e si trasferì nel comune toscano. Aveva una moglie, Cesira, e una figlia, Benvenuta, che lo hanno raggiunto l’anno successivo.



Il dormitorio e le case popolari

Oggi Benvenuta ha 80 anni e racconta la storia padre. Parla dei “Camerotti“, cioè dei dormitori che si trovano al Filare, frazione del comune di Gavorrano, che ospitavano decine e decine di minatori provenienti da ogni parte d’Italia. Inizialmente, come Mario, partivano da soli, poi, in un secondo momento, portavano le famiglie in maremma e si trasferivano in un appartamento grande al massimo due o tre stanze.

Benvenuta si trasferì a Bagno di Gavorrano, altra frazione del comune, che all’epoca era considerato un paese dormitorio ma oggi è il centro più popoloso del comune (3.451 abitanti contro i 742 del capoluogo, secondo il censimento del 2011) e anche quello più vicino al mare: dista 11 chilometri dalla spiaggia del Puntone, frazione del comune di Scarlino.

Negli anni della seconda guerra mondiale la povertà era diffusa e nonostante un lavoro duro, faticoso e pericoloso come quello del minatore, le famiglie faticavano ad avere un pasto nel piatto. Visti dagli occhi di un bambino, però, questi aspetti negativi vengono emarginati dalla memoria e ciò che rimane oggi è solo una piacevole nostalgia.



Uno strappo alle regole

Il “troppolo” di cui si parla nel video è una sezione circolare di un tronco di albero che veniva raccolto dopo che gli “armatori“, cioè quei minatori specializzati nella creazione di nuove gallerie (quelli dell’ “avanzamento“), facevano saltare in aria con una mina un punto della miniera dove ancora non si era scavato. I minatori potevano portarsi a casa questo ceppo ma doveva avere un diametro lungo al massimo quanto l’avambraccio, più o meno 20-30 centimetri. Spesso veniva utilizzato come legna da ardere durante l’inverno ma nel caso di Benvenuta, il padre aveva utilizzato questa parte di tronco per creare degli sgabelli. Invece, era severamente vietato portare a casa la pirite. Ma spesso i minatori rischiavano, nascondendo i pezzi più piccoli di minerale dentro il fagotto dei panni sporchi, quando uscivano dalla miniera. Lo facevano per spiegare e far vedere ai figli in cosa consisteva il loro lavoro sotto terra.

Foto d'epoca con tutta la famiglia al completo

Foto d’epoca con tutta la famiglia Battazza al completo

Il fascismo

La famiglia Battazza si trasferì in Maremma in piena epoca fascista. Come per altri lavori e professioni, in miniera, chi non aveva la tessera del Partito fascista o non veniva assunto o, peggio, veniva licenziato. “Volevano che mio padre prendesse la tessera del fascio ma disse di no. Così, alla fine della seconda guerra mondiale, venne licenziato per qualche mese e in quel periodo aiutò gli americani che passavano dalla Maremma. Poi fu reintegrato dalla Montecatini, anche grazie ad alcuni amici minatori che fecero pressioni ai piani alti”.

La lotta dei cinque mesi

Uno degli eventi più importanti per la miniera di Gavorrano, ma anche delle miniere vicine di Ribolla, Niccioleta e Boccheggiano,  fu la lotta dei cinque mesi. Per la prima volta i minatori chiedevano alla Montecatini la trasformazione del cottimo individuale in cottimo collettivo. Fino ad allora, infatti, la retribuzione del lavoro era proporzionale o comunque legata alla quantità di prodotto lavorato. In poche parole, più si produceva e più si veniva retribuiti. Per guadagnare di più, quindi, gli operai mettevano a dura prova il loro fisico, arrivando stremati a fine turno o subendo infortuni sul lavoro. Con la lotta dei cinque mesi, i minatori volevano ridurre i rischi del lavoro e lo sfruttamento. L’unico modo era trasformare il contratto da individuale a collettivo.



Niente vacanze

Le vacanze non esistevano. L’unico momento di svago durante l’estate era andare al mare che da Bagno di Gavorrano dista circa 11 chilometri. Oggi in auto o in autobus, ci vuole un quarto d’ora, ma 60 o 70 anni fa il mezzo più utilizzato era la bicicletta. E ci voleva molto più tempo.



Libro ed elmetto, minatore perfetto

Chi scendeva sotto terra, in miniera, non pensava solo a lavorare. La Montecatini, infatti, offriva un servizio di doposcuola per insegnare agli operai a leggere e scrivere. E Mario Battazza era proprio uno di quei lavoratori che avevano deciso di studiare dopo il turno in miniera.



Il fidanzamento

A 15 anni, Benvenuta si fidanzò con Carlo Cambri, fornaio di Bagno di Gavorrano. Nonostante fosse giovanissima, Mario accettò la scelta della figlia. Il motivo era semplice: Carlo non rischiava la vita ogni giorno in miniera e soprattutto poteva garantire a Benvenuta un pasto nel piatto. Il legame tra padre e genero si strinse quando Mario andò in pensione. Avendo più tempo libero, lo andava ad aiutare al forno, che dista pochi metri dalla casa in cui la famiglia Battazza si trasferì nel 1938.



Il matrimonio e Don Gelmini

Il fidanzamento diventò matrimonio nel 1957. Un matrimonio particolare perché fu il primo celebrato dal primo sacerdote della parrocchia di Bagno di Gavorrano: Don Pierino Gelmini. Una figura piuttosto controversa, di cui parleremo meglio più avanti, che Benvenuta ricorda così: “Era un prete giovane e arrivò quando fecero la Chiesa nuova. Gli piaceva stare con le persone che stavano bene, mentre trascurava un po’ i minatori. Era amico delle persone che stavano un po’ meglio e non di noi che vivevamo la miseria“.

Il ritorno a Urbino

A differenza di Benvenuta, il figlio Leonardo ha fatto il percorso inverso: negli anni ’70 si è trasferito da Bagno di Gavorrano a Urbino per frequentare la Scuola del Libro, il liceo artistico.



I 40 anni del murales sulla miniera

E nell’estate del 1976 ebbe un’idea: raccontare con un murales la dura vita della miniera.

Con un gruppo di ragazzi, si partì da Urbino nell'estate del 1976 e si realizzò il murales. Eravamo la Brigata Gramsci Leonardo Cambri


Il dipinto si trova nell’ex sezione del Partito comunista italiano, oggi circolo Pd, di Bagno di Gavorrano. Un edificio piuttosto particolare rispetto all’urbanistica del paese negli anni ’70. Ma per Leonardo, il posto era perfetto. Così, insieme al collettivo, la Brigata Gramsci, realizzarono il dipinto in quattro giorni: dal 15 al 18 giugno. Il murales mostra la pericolosità del lavoro, la miseria, le lotte sindacali e uno degli episodi più importanti della seconda guerra mondiale: la strage nazifascista di Niccioleta del 1944, dove furono uccisi 83 minatori.



Questo non è stato l’unico dipinto firmato Urbino. A Gavorrano, in piazza del Minatore, un gruppo di studenti dell’istituto d’arte, compreso Leonardo, ha realizzato anche un altro murales, sempre dedicato alla vita mineraria. È un omaggio a tutti quei minatori che hanno perso la vita sul lavoro, spesso a centinaia di metri sotto terra. L’opera è stata realizzata nel 1998, cento anni dopo la scoperta del giacimento di pirite ferrosa nelle colline metallifere.



Il “rinfresco” della festa di Santa Barbara

Uno degli eventi che Leonardo ricorda quando era bambino è il 4 dicembre, la festa di Santa Barbara, protettrice dei minatori e degli artificieri. Era l’unica occasione, per i bambini, per mangiare le tartine.



La “corna” di fine turno

Un altro evento che però veniva vissuto quotidianamente era il suono della sirena, della “corna“, che scandiva l’inizio e la fine del turno di lavoro in miniera. Se suonava fuori dal cambio turno, aveva un altro significato: voleva dire che era successo qualcosa di grave.



Il parco nazionale e la scultura simbolo della vita precaria

Il cubo di Leonardo Cambri

La scultura in acciaio di Leonardo Cambri

Il suo rapporto con la miniera di Gavorrano è diventato più stretto nel 2008 quando realizzò una scultura in acciaio che si trova davanti all’entrata del Parco nazionale geominerario delle colline metallifere. “Rappresenta la struttura della pirite, formata da tanti piccoli cubi. È anche a forma di vortice, per simboleggiare il pozzo di estrazione. La scultura è volutamente in bilico, sembra che da un momento all’altro possa cadere. Esattamente come il lavoro in miniera, precario e pericoloso“.

Allo stesso modo, si è rafforzato anche il rapporto di Urbino. “Nel 2009 ho avuto l’opportunità di realizzare una mostra a Urbino, nel palazzo del Legato Albani, con la collaborazione del suo presidente Francesco Andreani, della professoressa Lella Mazzoli e del professor Christoph Bersch dell’Univesità di Innsbruck. Il titolo era un po’ di fantasia: Moti cinematici statici. Un ossimoro”.

TORNA AL MENÙ

Don Pierino Gelmini

Il prete con la Mercedes

Per raccontare bene la storia di Don Pierino Gelmini bisogna partire da Don Camillo e Peppone, protagonisti della raccolta di racconti di Giovannino Guareschi, Mondo Piccolo. La situazione a Gavorrano nel 1955 non era molto diversa da Brescello, paese della pianura padana in cui è ambientata l’opera: il sindaco comunista e il parroco del paese si sfidano per conquistare le simpatie della comunità. Ci sono, però delle differenze sostanziali: nei racconti, sono avversari e le loro contese si risolvono nella reciproca comprensione. A Gavorrano no: sono nemici. Secondo i comunisti del borgo toscano, Don Pierino Gelmini era legato alla fabbrica, tanto da essere battezzato proprio “il prete della Montecatini“. Un legame forte con la società chimica considerata da alcuni comunisti dell’epoca “la prosecuzione del fascismo a livello industriale“.

Don Franco Cencioni

Lui è Don Franco Cencioni. Ha quasi 90 anni ed è Proposto del capitolo della Cattedrale di Grosseto ma dal 1957 al 1960, quand’era giovane, è stato parroco di Bagno di Gavorrano. Il secondo, per la precisione: ha sostituito proprio Don Pierino. “Don Gelmini era lombardo – racconta Don Franco – e aveva la carica lombarda dell’imprenditore. Una volta arrivato a Bagno, fu avvicinato dagli anti-marxisti e fu mandato via nel 1957 sia per le difficoltà create dal Pci e Psi, sia per quelle della Montecatini. Non aveva la patente ma possedeva una Mercedes che faceva guidare a turno ai ragazzi dell’oratorio che avevano la patente. In questo modo erano contenti entrambi: i giovani si facevano vedere con una bella macchina e lui si faceva portare in giro. Di lui, in particolare, mi ricordo la facilità di acquistare senza pagare“. Una tendenza che nel 1971 lo portò a scontare quattro anni di carcere per emissione di assegni a vuoto, truffa e bancarotta fraudolenta.

Credere nell'uomo, nonostante tutto Don Pierino Gelmini

I due si conoscevano bene. Nelle foto sono entrambi alla cerimonia della benedizione delle campane a Bagno di Gavorrano nel 1957. Con loro, c’è anche Paolo Galeazzi, vescovo di Grosseto dal 1932 al 1971, che nel 1949 ordinò sacerdote proprio Don Gelmini. Dopo una buona prova di apostolato a Grosseto, Don Pierino fu trasferito a Casal di Pari, in provincia di Grosseto. Poi, nel 1955, l’arrivo a Bagno di Gavorrano nella neonata parrocchia di San Giuseppe Artigiano. Fino ad allora, il paese era stato sotto San Giuliano, la parrocchia di Gavorrano, guidata da Don Pietro Nonna.

San Giuseppe, il patrono della discordia

La scelta del patrono non ha fatto contenti tutti. La cultura rossa era talmente radicata nella cultura popolare che Bagno di Gavorrano è  soprannominata “la piccola Stalingrado“, visto che dal dopoguerra il comune è sempre stato amministrato da coalizioni di centrosinistra, in particolare da Pci e Psi. Quella parte del paese voleva che la chiesa fosse intitolata sì a San Giuseppe, ma il lavoratore, non l’artigiano. In questa scelta, vedevano la mano della Montecatini. L’artigiano è una figura più vicina all’imprenditore: è autonomo, non ha uno stipendio da dipendente e non ha padroni. San Giuseppe lavoratore avrebbe incarnato lo spirito del tempo: il lavoro dipendente e il precariato, cioè la figura del minatore. C’è chi, invece, come Don Franco, ha appoggiato e appoggia tutt’ora questa decisione. “È stato scelto San Giuseppe Artigiano semplicemente per rappresentare il lavoro in generale. Non c’è nessun motivo politico”.

All’interno della chiesa, però, ci sono dei simboli della vita mineraria, come la statua di Santa Barbara, intagliata nel legno di Ortisei. Al lato dell’opera c’è anche il pozzo minerario che serviva a trasportare la pirite dal luogo di estrazione, sotto terra, in superficie.

Uno con(tro) tutti

Don Gelmini era un personaggio controverso. Contrastato dai comunisti ma anche dalla curia. “Era battagliero – racconta Enrico Melillo, fedele di Bagno di Gavorrano – e per questo dava fastidio alla curia. Il picco massimo lo raggiunse nel 1956, quando andò a parlare nella casa del popolo, la sezione del Pci. Fece infuriare il vescovo. Qualcuno lo chiamava ‘il prete della Montecatini’ ma non era vero. Era il prete di tutti“.

Noi andiamo avanti con i soldi dei poveri e con le idee dei ricchi Don Pierino Gelmini

Don Gelmini, in quegli anni, fondò anche un giornale della Chiesa, La voce del parroco, che raccontava tutta la vita di parrocchia. Ci scriveva anche Otello Rossi, giornalista che lavorava per i giornali locali della provincia di Grosseto.

La Comunità Incontro

Dopo il periodo maremmano, Don Gelmini si occupò dei ragazzi indigenti e iniziò a pensare all’idea di una comunità di recupero per ragazzi drogati, quella che poi sarà chiamata Comunità Incontro. La prima sede fu aperta a Roma ma successivamente, nel 1979, fu trasferita ad Amelia, in provincia di Terni. Attualmente, sono circa 200 le comunità presenti in tutte le regioni d’Italia e all’estero, in particolare in Spagna, Thailandia, Canada, Bolivia, Costa Rica, Francia, Svizzera, Slovenia, Brasile e Stati Uniti.

Le accuse di pedofilia

Nel 2007, Don Gelmini fu indagato dalla Procura di Terni per presunti abusi sessuali su alcuni ospiti della sua comunità, alcuni dei quali minorenni, avvenuti tra il 1999 ed il 2004. Don Pierino il 29 febbraio 2008 chiese e ottenne di essere dimesso dallo stato clericale, per prepararsi ad affrontare le accuse. La Procura chiese il rinvio a giudizio, accordato dal gup il 18 giugno 2010. Il processo ha subito vari rinvii a causa delle condizioni di salute di Don Pierino, e si è interrotto con la sua morte ad Amelia il 12 agosto 2014, a 89 anni.

I vip e la Rai

TORNA AL MENÙ

Lionello Cedrucci

Quando si andava a lavorare fuori

Sei persone in un furgoncino “tutto scassato”. Trecento chilometri, più di sei ore di viaggio e soltanto un filo di pane rinsecchito come pasto. Se lo ricorda bene il viaggio Lionello Cedrucci che nel 1954, quando si è trasferito con la famiglia da Cabernardi a Bagno di Gavorrano, aveva 18 anni.



I quattro distretti popolari

Il padre era arrivato nel ’50 e abitava nei dormitori della Montecatini. “Mio padre stava ai ‘Camerotti‘, al Filare – racconta Lionello – Là stavano tutti gli operai che venivano da fuori. Ce n’erano tanti e venivano da tutta l’Italia ma la maggior parte veniva proprio da Cabernardi. Per il cibo, si arrangiavano da soli. C’era anche una mensa che dava loro qualcosa da mangiare. Ma, ecco, così, alla meglio”. Borgo San GuglielmoUna parentesi terminata nel 1954, quando la Montecatini costruì a Bagno di Gavorrano un complesso di case a uso esclusivo dei minatori provenienti da Cabernardi. Così tutta la famiglia si trasferì in Maremma. “Normalmente tutti gli operai di Cabernardi hanno preso le case – spiega Lionello – molti qua a Bagno di Gavorrano, altri ai Forni“.

Cabernardi

Complesso “Cabernardi” a Bagno di Gavorrano

I complessi di case popolari più importanti del comune di Gavorrano erano quattro: Cabernardi, appunto, che prese il nome dal paese d’origine degli abitanti, così come Montelepre, dove stavano i minatori sicicliani. C’era poi San Guglielmo, al confine tra Bagno di Gavorrano e Filare, dove stavano principalmente i calabresi e i Forni, distretto vicino alla zona artigianale di Bagno di Gavorrano, dove abitavano principalmente i toscani.

Anche Lionello si ricorda di Don Pierino Gelmini. “Era una bravissima persona. Si interessava molto a noi giovani e ci invogliava ad andare in Chiesa. Poi ci siamo allontanati un po’ tutti perché la Montecatini ci mandava a lavorare fuori”. E nel 1958, Lionello fu trasferito a Ferrara, dove lavorò allo stabilimento petrolchimico per 14 anni.



Da Ferrara a Gavorrano: il ritorno

Nel 1972 tornò a Bagno di Gavorrano per lavorare al Casone, la zona industriale di Scarlino. Era uno dei responsabili del reparto che lavorava il titanio. “Al Casone dovevi essere bravo: c’erano tante cose da fare – racconta Lionello – E c’erano tanti pensieri perché c’era una bella responsabilità: avevo 15-20 persone sotto di me. Non è uno scherzo. Poi, ai tempi, noi responsabili comandavamo fino a un certo punto perché c’era chi comandava più di noi”. Lionello si ferma un attimo. “Non so se lo posso dire”. E dopo pochi secondi di silenzio: “Ai tempi comandavano i sindacati“.

L’industria chimica: il Casone

Il lavoro non era certo pericoloso o stancante come quello del minatore ma comunque ogni giorno c’era qualche problema da risolvere.



Lo storico negozio della pasta fresca

Nel 1978, insieme alla moglie Graziella Barbini, hanno aperto un negozio di pasta fresca. Si tratta di uno dei negozi storici di Bagno di Gavorrano, aperto tutt’ora. All’inizio ci lavorava soltanto Graziella ma dal 2008 si fa aiutare dalle due figlie.


TORNA AL MENÙ

Paolo Gabbianelli

La miniera e l’officina

Gabbianelli

Oltre all’attività estrattiva e quella industriale, c’era un altro settore che muoveva la miniera di Gavorrano: il settore meccanico. Paolo Gabbianelli era di Cabernardi e si trasferì da giovane a Ferrara per lavorare. Ma la città non gli piaceva. Così chiese al cognato che abitava a Gavorrano se c’era la possibilità di andare a lavorare al Casone, nel settore industriale. Nessun lavoro disponibile. Il cognato, però, gli disse che c’era un posto disponibile alle officine meccaniche della miniera. Così, nel 1969, Paolo si trasferì a Bagno di Gavorrano.

L’arrivo in Maremma

Nonostante a Ferrara il lavoro fosse migliore dal punto di vista della fatica e della pericolosità, dopo 7 anni Paolo decise di trasferirsi in Maremma, un posto che gli ricordava tanto le Marche che aveva abbandonato da ragazzo.

Le “meccanizzazione interna” della miniera

A Gavorrano faceva il saldatore nel reparto della meccanizzazione interna, un gruppo di lavoro composto da circa 20 persone tra meccanici ed elettricisti. La maggior parte del lavoro era in superficie, sugli impianti esterni, ma a volte capitava di dover scendere sotto terra.

Il lavoro e i sindacati: quando una tessera può essere d’aiuto

All’inizio, Paolo faceva parte della Cisl, poi ha cambiato ed è passato alla Cgil. A lui importava poco, non partecipava alla vita del sindacato e pagava soltanto un contributo annuale per avere la tessera. Ma fare parte di un sindacato, dice Paolo, aiutava molto: riuscivi a ottenere i migliori posti di lavoro, quelli meno faticosi e meno pericolosi.

TORNA AL MENÙ

Il trasferimento come arma politica

Il piano della Montecatini contro il Partito comunista

Per creare rottura, occorreva evitare l’integrazione. Nel 1952 la Montecatini fece quindi costruire il complesso dei Forni, seguito nel 1955 dal distretto di Cabernardi, entrambi a Bagno di Gavorrano: due villaggetti staccati dal paese.

Ma non bastava. Serviva anche una figura che facesse da collante tra i nuovi arrivati e il territorio: il parroco. Nel 1955 nacque la parrocchia di Bagno di Gavorrano e venne affidata a Don Pierino Gelmini, che tra gli ex Pci ed ex Cgil venne subito ribattezzato “il prete della Montecatini”. Ai tempi, i comunisti erano molti, anzi, la maggioranza.

Molto spesso chi si trasferiva dalle Marche a Gavorrano lo faceva per continuare a lavorare e per avere quindi i soldi sufficienti a sfamare la propria famiglia. Soprattutto chi è arrivato in Maremma negli anni ’30 e dopo gli anni ’60. Ma non negli anni ’50. Secondo ex membri del Pci e della Cgil, questa ondata migratoria è stata pilotata dalla Montecatini per motivi politici. “A Gavorrano, in miniera, c’era la cellula comunista più grande d’Italia – racconta Daniele Fantini, ex Cgil – e la Montecatini ha voluto trasferire volutamente le famiglie marchigiane che più erano vicine alla Democrazia cristiana, il partito della società. Volevano ostacolare il Pci e l’unico modo era creare una rottura sul posto di lavoro”.

Se l’integrazione per la prima generazione di marchigiani è stata difficile, per la seconda è stata più facile. Spesso accadeva che i figli dei minatori nascessero e crescessero in Toscana e frequentassero quindi le stesse scuole delle famiglie native di Gavorrano. Un discorso che non vale per la terza e la quarta generazione: non si sentono marchigiani ma toscani a tutti gli effetti. I nipoti e bis nipoti dei minatori, nella maggior parte dei casi, non sono mai stati nelle Marche e non hanno mai visitato i luoghi d’origine degli avi.

TORNA AL MENÙ

Queste erano le storie di chi ha deciso di lasciare la propria terra per combattere la miseria e per cercare fortuna altrove. Sono quei marchigiani che hanno costruito una famiglia e si sono integrati con la comunità gavorranese, al punto che, anche quando il lavoro è finito e sono andati in pensione, hanno deciso comunque di rimanere in Maremma, in quella terra che oggi possono chiamare casa.

TORNA AL MENÙ
Questo servizio è un Progetto di fine corso per il biennio 2014-2016 dell'Istituto per la Formazione al giornalismo di Urbino (IFG), pubblicato il 18 marzo 2016.