di Andrea Perini
“HO SCOPERTO DI ESSERE LESBICA” – “IL MIO POSTO SPECIALE” – “RIPIEGAVO SU UN RAGAZZO”
– BOTTE E OSPEDALE. LA LIBERTÀ “PAGATA A CARO PREZZO”
ARCIGAY A URBINO – GIACOMO E ROBERTA, L’ATTIVISMO FAMIGLIARE – ATENEI A CONFRONTO
Il rumore della macchinetta elettrica le risuona nelle orecchie, le ciocche di capelli biondi le passano davanti agli occhi prima di cadere a terra. Non aveva mai avuto il coraggio di stravolgere il suo aspetto fisico. Era un giorno di primavera del 2013 quando Angela, si è accomodata sulla sedia del parucchiere di via Mazzini a Urbino e ha detto: “Tagli, mi voglio sbarazzare di questi capelli ordinari”. E in quel momento si è liberata anche della sua personale maschera dichiarando, con quel cambio radicale di look, la propria omosessualità. Come per Angela anche per Giulia e Katia Urbino ha rappresentato il punto di svolta della loro vita: è diventato il luogo in cui essere se stesse anche vivendo nel ‘sottobosco’ cittadino. Per Andrea invece, la conquista della libertà è passata per le botte e l’ospedale.
In Italia, stando all’ultimo rapporto Istat pubblicato nel 2012, circa un milione di persone si è dichiarato omosessuale o bisessuale, i più tra i giovani. Urbino di giovani studenti universitari, provenienti da tutta Italia ma per la maggior parte dal Sud, ne accoglie ogni anno più di 14mila arrivando a essere l’unica città, all’interno dei confini nazionali, in cui il rapporto tra cittadini e universitari è di uno a uno. Tra loro, anche se non ci sono dati a confermalo, sono tanti quelli che, abbandonati gli sguardi inquisitori della città d’origine, fanno cadere i veli che fino a quel momento coprivano la loro vera natura.
In una città che non offre alla popolazione gay associazioni studentesche lgbt, locali ed eventi Giacomo, Roberta e Jacopo, attivisti di Gay and Proud (Gap), Agedo Marche e Arcigay-Agorà Pesaro e Urbino cercano di rompere il silenzio che circonda il loro mondo a Urbino, ma in generale nelle Marche. “Abituare l’occhio per educare la mente” è l’idea di Giacomo perché “tra le pieghe del silenzio mascherato da completa accettazione si può celare la paura dell’ignoto e di conseguenza l’omofobia”.
Da Calabria e Veneto a Urbino. Le doppie vite di Katia, Giulia e Angela
Dovevo laurearmi, sposarmi con un uomo e fare dei figli Katia
Katia (nome di fantasia) è arrivata a Urbino dalla Calabria nel 2007. Non era consapevole dei propri gusti sessuali. Per lei l’incontro con Urbino doveva rappresentare solo l’inizio della carriera universitaria invece è stato il prologo di una nuova vita molto diversa di quella disegnata per lei.
“Il mondo gay, prima di arrivare a Urbino, per me non esisteva. La mia vita era già stata scritta: dovevo laurearmi, sposarmi con un uomo e fare dei figli. Ero stata formata per questo. Sono arrivata a Urbino quindi con la consapevolezza di essere quella persona che la società, la cultura del mio paese, della mia famiglia, avevano creato. Il mio personale punto di svolta è arrivato nel 2009 quando mi sono resa conto di essermi innamorata di un’altra donna e che, soprattutto, a Urbino non dovevo provare vergogna per questo. Potevo espormi senza il timore di essere giudicata. A Urbino non ti attaccano etichette al contrario di quello che succede in Calabria. Quello che nel mio paese definiscono come un ‘problema’, sotto i Torricini non desta nessuna preoccupazione”.
E in un ambiente in cui molti giovani scoprono il loro vero essere, Katia si è liberata della sua personale maschera: “Era molto più semplice essere me stessa. Piano piano ho conosciuto sempre più persone omosessuali fino a formare un mio gruppo. Abitavamo tutti in centro e come ogni studente il giovedì, per la serata universitaria, prima di uscire ci ritrovavamo tutti in una casa. Tra quelle quattro mura si poteva parlare di tutto. Proprio a una festa, in occasione delle giornate dello studente, ho incontrato quella che è poi diventata la mia prima fidanzata e furono i miei amici, entrambi gay, a organizzare l’incontro. Prepararono una festa a sorpresa in cui tutti i nostri amici erano presenti. Mi fecero tardare e quando arrivai lei era già lì. Dopo quell’incontro ‘forzato’ iniziammo a uscire. Con lei per la prima volta provai l’emozione di camminare mano nella mano con una ragazza, di baciarla, di sfiorarle il viso. Per me era importante e lo è stato ancora quando abbiamo deciso di passeggiare mano nella mano in piazza della Repubblica, alla luce del sole”.
Una volta terminata la propria esperienza urbinate Katia ha fatto ritorno in Calabria scegliendo la carriera politica ed è stata costretta a indossare di nuovo quella maschera che odiava: “Ho iniziato questo percorso ma oggi ho paura che qualcuno possa far uscire questo argomento personale per usarlo contro di me. Devo fingere quindi continuamente di essere una persona che non sono. Quando tornai da Urbino tentai ingenuamente di innescare un cambiamento nel mio paese. Invece ho ottenuto esattamente il contrario. Hanno iniziato a chiedermi se avessi ‘qualche problema’, se attraverso ciò che stavo portato avanti volevo ‘giustificare il mio essere’. Qui non posso essere me stessa come invece lo ero quando frequentavo l’università a Urbino. Solamente a Urbino sono stata una persona vera, sotto tutti i punti di vista”.
Essere lesbica, prima pensavo fosse un male Giulia
Durante i suoi anni ducali Giulia, quando usciva con una ragazza, è sempre ricorsa a quello che lei chiama il suo ‘posto speciale’: “Era una panchina poco distante dalla Fortezza Albornoz. Da lì potevi vedere Urbino in tutto il suo splendore, avevi i Torricini proprio di fronte racchiusi da due alberi. Era un posto tranquillo frequentato da molte coppie. L’ultima volta che ho portato una ragazza lì poi è diventata la mia fidanzata. Con lei ho deciso di andarci di sera. Mi ricordo la luna grande in cielo. Le avevo dato appuntamento proprio in cima a via Raffaello. Da lì arrivare a quella panchina servono solo pochi minuti. Non sbagliai con quella mossa: anche lei fu rapita da quei Torricini illuminati dal chiaro di luna”.
Da quella sera incantata è passato un anno e oggi Giulia racconta di essere “arrivata al punto che nonostante torni ad Ancona, il luogo della mia infanzia, di tanti ricordi, non mi sento più a casa perché non sono completamente me stessa. A casa non ho ancora detto niente ai miei genitori e ho portato la mia fidanzata solo come amica. Mio fratello è l’unico a conoscere la situazione. Non poter dire a casa che quella è la tua fidanzata, non poter camminare per mano in città per paura di esser visto da qualcuno che magari conosce i tuoi genitori. Mi limito anche sui social: non metto mai foto ‘ambigue’ per paura che le voci arrivino in casa. A Urbino è diverso. Tutto questo non esiste e sono completamente io”.
Ripiegavo su un ragazzo pur di non destare sospetti Angela
Angela arriva invece dal Veneto e solo a Urbino è riuscita a uscire dall’empasse di vivere una doppia esistenza. Lei aveva ben chiara la sua sessualità ma fin quando era sotto il tetto dei suoi genitori aveva deciso di “ripiegare su un ragazzo” pur di non destare sospetti. Una volta arrivata nelle Marche ha capito di essere a un bivio: “O mentivo per tutta la vita oppure mi confrontavo con la mia famiglia raccontando tutto”.
Fidanzata a Urbino, quasi una convivenza, è riuscita a vivere a pieno la sua storia d’amore: “Qui siamo una coppia normale, possiamo esprimere noi stesse e la nostra quotidianità non vive di bugie. Tornando a casa portiamo quella “normalità” ed è li che affrontiamo il fatto che in qualche modo devo dirlo ai miei genitori. Io non l’avrei nemmeno detto immediatamente però nel momento in cui ho portato il “problema”, la mia fidanzata, a casa l’ho praticamente dichiarato. In primis a mia sorella perché era molto più semplice”.
Ma il primo passo verso il suo coming out è stato il cambio di look: “Rasarsi i capelli da un lato e tenerli abbastanza corti sull’altro dove abito è praticamente una dichiarazione di omosessualità. Molte delle ragazze che conosco li portano in questo modo. Quel taglio per me voleva dire libertà ma fin quando non sono arrivata a Urbino non ne ho avuto il coraggio. La mia paura di essere ‘scoperta’ era troppa. Così portavo un taglio ordinario con i capelli fino le spalle. La prima volta che varcai la porta del parrucchiere di via Mazzini provai un’emozione fortissima: senso di libertà. Con quel taglio i miei genitori hanno iniziato a prendere coscienza delle mie preferenze sessuali, anche se in silenzio. Alle loro domande si risposero quando portai la mia fidanzata a casa”.
E non sono servite associazioni particolari a Urbino per farmi sentire protetta. Le associazioni a Urbino non servono: sei più libero, vieni accettato per quello che sei, è come iniziare una nuova vita. Non vivi con ‘l’ansia di essere lesbica’ ma con la gioia di essere come tutti gli altri solo con gusti differenti. A Urbino sei uno studente e la tua sessualità non conta”.
Le botte e l’ospedale. Andrea e quella libertà “pagata a caro prezzo”
Accanto alle storie di chi ha trovato a Urbino una specie di ‘terra promessa’ c’è chi, pur essendo felice di aver incrociato la città del duca nel cammino della propria vita, ha subito discriminazioni e per tre volte è stato portato in ospedale. È la storia di Andrea studente pugliese, iscritto a Pedagogia e progettazione educativa.
“Ho scoperto di essere gay all’età di 16 anni ma nella mia vita non ho avuto solo esperienze omosessuali. Appena finite le superiori non ci ho pensato due volte ad andarmene da Trani perché, nonostante conti circa 60mila abitanti, è peggio di un ghetto. La strada della mia vita mi ha portato nel 2008 a Urbino dove da otto anni vivo non preoccupandomi di mostrare il mio vero io”.
“Il primo impatto con la realtà studentesca, la città e la vita universitaria è stato ottimo. Ho trovato un ambiente aperto e pronto. Almeno fino al 2009. Abitavo ai collegi Tridente: blocco 900 braccio tre, praticamente a Mazzaferro (frazione di Urbino, ndr). Eravamo usciti, era il mio secondo anno. Avevamo festeggiato e io, che avevo alzato un po’ il gomito, mi ero addormentato vicino ai distributori automatici delle merendine. Quello che all’epoca si definiva ‘un amico’ iniziò a gridarmi dicendomi che dovevo obbedirgli. Voleva che andassi a parlare con una ragazza con cui aveva litigato. Dalle parole in breve è passato alle mani: mi ha preso per i capelli e trascinato per le scale. Strappandomi una ciocca di capelli riuscii a liberarmi e scappai. Il giorno seguente ritrovai la porta di camera mia sfondata e all’interno era tutto a soqquadro”.
Finocchio di merda, la devi pagare L'aggressore di Andrea
Il motivo di quell’aggressione, Andrea lo capì solo un anno dopo. Era il 2010, sabato sera. Andrea era al Qclub, il principale luogo di ritrovo dei giovani universitari di quegli anni. La sua serata scorreva tranquilla fin quando non ha incrociato quelli che sarebbero stati i suoi aggressori. “Stavo facendo pipì nascosto vicino a un cespuglio quando mi sentii gridare: ‘Frocio, finocchio, ti faccio un culo così’. L’insulto arrivava da un giovane barlettano. Mi avvicinai e, senza quasi aprir bocca, mi diede due sberle che mi fecero andare a terra. Guardai in alto e vidi, vicino al giovane che mi aveva appena colpito, il ragazzo che l’anno prima mi aveva strattonato per i capelli. Ricordo ancora le sue parole: ‘Tu finocchio di merda la devi pagare’. Dopo quella frase ricordo solo i calci”. La faccia tumefatta, un’anca contusa e quell’ambulanza che tardava ad arrivare. “Dolorante, ferito nell’orgoglio, mi incamminai verso l’ospedale. Mi ricoverarono per l’intera notte e mi dimisero il giorno seguente con una prognosi di una settimana”.
“Lei è donna quindi devo prendermela con te”. Da quel sabato sera per tre anni Andrea non ebbe più problemi. Poi è successo di nuovo, sempre con un pretesto futile. “Era un giovedì sera, mancava solo un mese alla mia prima discussione di laurea. Sapevo che un ragazzo, con cui era in crisi amorosa una mia amica, non mi vedeva di buon occhio. Ero all’interno di un locale del centro storico quando vidi avvicinarsi quel giovane. Si fermò al bancone vicino a me e mi sussurrò all’orecchio: ‘Io non posso prendermela con lei perché è una donna quindi me la devo prendere con te’. Stavo bevendo un Long Island: lui lo prese e me lo versò in faccia. Uscii fuori dal locale ma fatti cinquanta metri me lo ritrovai alle spalle. Mi fermò. Mi buttò in mezzo alla spazzatura e mi iniziò a picchiare: calci, pugni in faccia. E gli insulti: ‘finocchio vieni qua’, ‘mo’ ti inculo io come non lo ha fatto nessuno’.Mi incrinai varie costole e passai la notte nuovamente in ospedale. A Urbino c’è molta gente omofoba sia tra gli studenti che tra la popolazione locale. Nonostante tutto questo penso che essere uscito dalla Puglia per me sia stato positivo. Ho ottenuto la libertà anche se l’ho fatto pagandola a caro prezzo”.
Studente e attivista. Jacopo Cesari porta Arcigay a Urbino
“Abituare l’occhio per educare la mente”. Madre e figlio attivisti
Chi tenta quotidianamente, mettendosi in gioco in prima persona, di far conoscere il mondo gay, a Urbino e in tutta la regione sono Giacomo Galeotti e sua madre, Roberta Fumelli. Abitano a Fermignano e hanno fatto dell’attivismo il loro pane quotidiano. In modi diversi portano avanti la battaglia per i diritti Lgbt. Roberta è una delle fondatrici di Agedo Marche (Associazione genitori di omosessuali). Giacomo è coordinatore per la scuola di Arcigay – Agorà Pesaro e Urbino, e per questo visita i licei di tutta la regione, e rappresentate dell’associazione urbinate Gay and Proud. Giacomo è stato attivista fin dall’età di 16 anni, quando ha dichiarato alla famiglia di essere omosessuale. Poi l’arroganza, le cattiverie e i giudizi critici della gente nei confronti di suo figlio e dei gay in generale hanno spinto anche Roberta a muoversi per cambiare le cose.
Insieme hanno organizzato e partecipato nel 2014 a Urbino le Olimpiadi di Suca, la parodia delle Olimpiadi invernali di Sochi in risposta alle discriminazione russe nei confronti del mondo gay: “In quell’occasione – raccontano – in città non c’è stato nessun problema. Si è svolta lungo i portici di Corso Garibaldi. Una bella esperienza. C’è stato solo un signore che da lontano, e sottolineo da lontano, ci ha urlato qualcosa, ma niente”.
Non sempre però Urbino si è dimostrata ospitale nei confronti delle iniziative del mondo Lgbt. C’è una scuola, un liceo, che ha declinato l’offerta di un laboratorio sulla stereotipia e il pregiudizio perché “non hanno riconosciuto Arcigay come un’associazione valida e me come un interlocutore degno”, spiega Giacomo. “Il fatto che Arcigay faccia parte dell’Ilga (International lesbian and gay association) e che io avessi una preparazione internazionale non sono bastati per convincere un semplice preside di una piccola cittadina italiana ad aprirmi le porte della sua scuola”.
Ma se la mamma di un figlio etero si espone perché non dovrei farlo io? La paura dell'ignoto genera persone omofobe Roberta
Nella sua lotta per i diritti delle persone lgbt rientra anche il mondo universitario. Giacomo, componente del Gap, cerca con cineforum, eventi e anche solo vestendosi come più gli piace di puntare l’attenzione sul mondo gay studentesco in modo da farlo emergere. “Io non ho mai subito discriminazioni all’interno dell’università e nemmeno nelle mie uscite serali. Tutto quello che c’è stato di omofobico e negativo da parte di Urbino è arrivato da dietro le spalle raccontato da terzi. Difficilmente Urbino ti urla in faccia. Non ti vedi ben accetto ovunque ma assieme al Gap abbiamo limitato molto le offese. Per noi il fatto di mostrarci in quanto gay, a Urbino, è anche una questione di lotta politica. Gli eventi, il modo di vestirsi, i convegni sulle tematiche di famiglia, sulle questione di genere. Le persone così si abituano. Se il corpo nudo o il bacio tra due gay fa scandalo è in quello momento che devi esporti. La risposta all’inizio è negativa ma solo così le persone possono conoscere, contaminarsi e aprirsi. È un po’ come il rinculo di una pistola: la prima reazione è opposta e negativa ma poi il proiettile parte e abbatte gli ostacoli”.
Il rinculo di quella pistola Roberta lo conosce bene. Le critiche feroci nei confronti di suo figlio, messosi a nudo per il progetto artistico-sociale Shape without shame, gli attacchi al suo modo di essere genitore e al modo di mettersi in prima linea nella lotta all’omofobia. “Staccarono tutte le locandine della sua iniziativa”, racconta arrabbiata. “Ne dissero di tutti i colori anche che quell’immagine di un giovane ‘rotondetto’ abbracciato da un altro uomo ledeva il buon costume. Arrivarono a chiedermi come potevo accettare tutto questo. Come potevo accettare mio figlio. Mio figlio! Ci sono persone che oggi non mi parlano più perché lo difendo, non mi salutano nemmeno. Pensano che sia un male lottare per i diritti delle persone lgbt. Ma se la mamma di un figlio etero lo fa perché non dovrei espormi io? La paura dell’ignoto genera persone omofobe quindi io mi batto per rompere l’indifferenza. Quel silenzio che porta poi ai commenti squallidi che nei confronti di Giacomo ho sentito tante volte”.
Ateneo marchigiano più ‘gay friendly’. Ma il doppio libretto non basta
Nel 2014, con l’approvazione del doppio libretto universitario, Urbino ha issato sul territorio regionale la bandiera arcobaleno vicino al proprio stemma tra gli atenei che offrono più servizi rivolti alle persone lgbt. L’altra, fuori dai confini marchigiani, in cui purtroppo non può reggere il confronto. Sono troppi i servizi dedicati alle tematiche lgbt mancanti.
Nonostante questo Urbino ha fatto scuola nell’approvazione di quella delibera. Quando il 16 luglio del 2014 il senato accademico approvò il doppio libretto in pochi nel panorama italiano lo avevano fatto. I lavoro erano allo stato embrionale. Circa un anno dopo seguirono a ruota gli atenei di Messina, Torino, Urbino, Padova, Verona, Napoli, Bologna, Firenze, Perugia, Genova, Palermo, Catania e Trento. Grazie al doppio libretto universitario uno studente in transizione vede il proprio diritto allo studio e alla privacy rispettati. La segreteria custodisce il libretto con i dati giuridici mentre lo studente per sostenere l’esame utilizza una copia con le sue attuali caratteristiche.
L’inizio del processo di evoluzione alla Carlo Bo è iniziato quando “un ragazzo venne a parlarci della sua situazione”, ricorda Stefano Pivato, docente di storia contemporanea alla Carlo Bo ed ex rettore. “Dopo quell’incontro approvammo il doppio libretto universitario per gli studenti in fase di cambiamento del sesso. Allora mi stupii che non avessimo ancora sopperito a questa mancanza ma quando si comanda – sottolinea l’ex rettore della Carlo Bo – non è facile avere lo stesso occhio di riguardo per tutti. Subito pensai che era un’iniziativa importante per tutelare la vita privata di uno studente e non far si che questa possa incidere sul giudizio del professore in sede di esame. La delibera passò all’unanimità e ricordo che il ragazzo fu entusiasta. Venne nel mio ufficio più volte per ringraziarmi”.
In questi anni è stato sufficiente questo per garantire a Urbino il primato regionale. All’università di Macerata il progetto è in fase di discussione mentre non ce n’è traccia all’università di Camerino e al Politecnico delle Marche di Ancona. Ma come per Urbino, nemmeno gli studenti gay di Ancona, Macerata e Camerino possono fare affidamento su una associazione lgbt specifica né tanto meno riunirsi in bar o locali gay friendly.
Se si escludono le attività organizzate dalle Pari opportunità dell’ateneo, Urbino perde il confronto con gran parte delle università italiane. A Milano ci sono tre diverse associazioni studentesche, l’Ateneo concede la possibilità agli studenti in transizione di avere il doppio libretto e organizza spesso iniziative specifiche sulle tematiche lgbt. A Bologna l’università collabora con Il Cassero, il comitato di Arcigay provinciale. Assieme organizzano corsi educativi e mettono a disposizione uno sportello di ascolto. Non solo: l’università di Bologna concede il congedo matrimoniale esteso anche alle coppie gay sposate all’estero. A Napoli l’università ha un vero e proprio osservatorio lgbt nel dipartimento di scienze sociali, lo sportello di ascolto e un progetto, Napoli diverCity attuato assieme al comune per far scoprire e vivere il mondo gay cittadino. A Cagliari oltre all’associazione Unica Lgbt è presente uno sportello di ascolto e consulenza mentre a Perugia, le iniziative dell’ateneo vengono supportate da una vivace vita extrauniversitaria gestita dall’Omphalos Arcigay Arcilesbica.