di PATRIZIA BALDINO
Fino a qualche decennio fa era impensabile che le persone sorde potessero occuparsi di musica. Suonare uno strumento o cantare erano attività considerate impraticabili. L’esempio del compositore tedesco Ludwig van Beethoven, diventato sordo quando aveva trent’anni, che continuò a suonare e scrivere musica nonostante la sordità era considerato un’eccezione.
Ma da qualche tempo la musica e la sordità non sono più in conflitto. Sempre più persone sfidano il silenzio e trovano nella musica un modo di comunicare, una valvola di sfogo, una possibilità di sentire in maniera differente e di inserirsi nella vita quotidiana.
Tra le persone che hanno sfidato il silenzio c’è Brazzo, rapper sordo dalla nascita che ha da poco pubblicato il suo terzo singolo. Giulia, che fin da bambina ha imparato a suonare il violoncello e il pianoforte. Il coro delle Mani Bianche di Roma, un gruppo di udenti e non udenti che si riunisce per cantare insieme. E Marianna, che canta le sue canzoni aggiungendo i gesti della lingua Lis. Sono il simbolo del potere delle sette note e di un settore, la musica, che comprende tutti senza differenze. Perché nella musica si nasconde qualcos’altro, ben più potente dei semplici suoni.
Il rap di Brazzo per la parità: “Non è paranormale che un sordo può cantare?”
Una ragazza si avvicina al bancone di un bar e chiede a un suo coetaneo se lo sgabello vicino a lui è libero. Ma il ragazzo non sente e le chiede di ripetere: la ragazza, infastidita, alza gli occhi al cielo e scandisce le parole seccata. Inizia così “Sono sordo mica scemo”, il primo singolo di Francesco Brizio, in arte Brazzo, trentenne tarantino ma da 10 anni milanese d’adozione. Brazzo è sordo dalla nascita: la sua è una sordità genetica perché proviene da una famiglia affetta da questo deficit da tre generazioni.
Un problema che spesso non viene capito dalle persone che lo circondano perché, spiega, spesso si è sentito emarginato. Il titolo “Sono sordo mica scemo” nasce proprio da qui. È un modo per ricordare che la sordità è una condizione da affrontare in altri modi, sostituendo il pietismo con la capacità di andare incontro ai non udenti. “Ho voluto provocare, rivelare i disagi sociali di noi sordi e chiedere più rispetto. Purtroppo la sordità è ancora una disabilità invisibile – commenta – ci sono tanti ostacoli da superare e servirebbe l’appoggio di tutti, cittadini e politici.
Già, la politica, spesso, lei sì, sorda ai problemi dei non udenti. Nella canzone Brazzo denuncia “Non ci sono interpreti negli ospedali, non ci sono fondi per gli istituti e autonoleggi per le patenti speciali”. Ma questi non sono gli unici settori carenti: “Ci sentiamo esclusi dal mondo sociale e culturale. La tv di Stato non ci permette di avere i sottotitoli in tutti i canali nonostante, come tutti, paghiamo il canone. Mancano servizi di interpretariato nelle scuole e negli uffici pubblici. Ci siamo dovuti ‘arrangiare’ da soli, ma nello stesso tempo ci sentiamo esclusi dal mondo sociale e culturale”.
E la musica, per Brazzo, è diventata fonte di integrazione, un modo per far sentire meno sole le persone non udenti. “Chi sente ascolta musica ogni giorno, per sfogarsi o per sentirsi spensierato. Anche noi sordi avremmo bisogno di questo, con la differenza che utilizziamo i segni e le espressioni. Con le mie canzoni ho voluto permettere a tutti di provare queste emozioni”.
L’inizio della sua carriera da rapper – che procede di pari passo con il suo lavoro in una compagnia assicurativa – è iniziata nel 2016, con l’uscita del primo singolo e l’apertura del suo canale Youtube. “Ho scelto il rap perché permette di affrontare molti temi e mi piace molto come stile. Di musica conosco pochissimo, mi appassiono però alla lettura dei testi delle canzoni. E così è iniziata la mia sfida”.
Sfida che all’inizio non è stata semplice perché cantare, per un sordo, è ovviamente molto complicato. “Ho iniziato facendo degli esercizi di respirazione diaframmatica – spiega Brazzo – poi ho continuato con le prove in sala di registrazione. A volte pronunciavo male le parole, ma con il passare del tempo ho superato questo limite. Ci vuole un allenamento costante”.
Brazzo sembra averci preso gusto: dopo “Sono sordo mica scemo” è arrivata la canzone “Il ritmo dell’estate” e infine il suo terzo singolo, pubblicato lo scorso gennaio e intitolato “Volere è potere”.
Un brano fortemente legato al primo, un inno alla forza di non arrendersi, alla speranza e al coraggio di seguire i propri sogni che, come lui canta “ha tradotto in segni”.
“Volere è potere dimostra che niente è impossibile, anche cantare con le mani che volano senza ali e mi permettono di percorrere da solo la mia strada”. E in futuro? Brazzo non ha dubbi: vuole entrare nel mondo della musica e far capire a chiunque che anche un non udente come lui può far provare emozioni con la propria voce, come afferma convinto nella sua prima canzone: “Posso cantare anche se sono stonato, come nessuno avrebbe mai immaginato”.
Giulia, violoncellista per dimostrare che la musica va oltre i suoni
Giulia Mazza era molto piccola quando i genitori hanno scoperto che la loro figlia era nata completamente sorda, per colpa di una rosolia. “Ma è stato un bene che se ne siano accorti così presto, perché da subito ho iniziato a portare gli apparecchi acustici e a svolgere delle attività specifiche per le persone non udenti” spiega Giulia che, dopo la laurea in Scienze naturali, lavora come impiegata part time.
Il tempo libero lo trascorre con un amico particolare e quasi impensabile per chi si trova nella sua condizione: il violoncello. Uno strumento che ha imparato a suonare all’età di sei anni e con il quale si esibisce in giro per l’Italia, suonando da sola o affiancata da un’orchestra.
La musica, racconta Giulia, nella famiglia Mazza era di casa. “I miei nonni cantavano, mia nonna era un’insegnante di canto e di pianoforte, perciò avvicinarmi ai suoni e alle melodie è stato un richiamo naturale”. La predisposizione di Giulia viene notata dai genitori che la accompagnano, a soli tre anni, da Giulia Cremaschi Trovesi, una musico-terapeuta di Bergamo specializzata nell’aiutare i bambini sordi e a farli comunicare attraverso la musica.
Da allora, Giulia non ha mai abbandonato questo mondo. “Oltre al violoncello, suono il pianoforte e la chitarra ma sono incuriosita da tanti altri strumenti musicali. Durante un viaggio in Australia ho perfino imparato a suonare il didgeridoo australiano, una sorta di flauto in legno di eucalipto inventato dagli Aborigeni”.
Ma fra tutti, il preferito resta sempre il fedele violoncello, perfetto per il suo tipo di sordità perché possiede una gamma di frequenze né troppo basse né troppo alte mentre altri strumenti musicali, come il violino, sono troppo acuti e, amplificati dall’apparecchio acustico, risultano fastidiosi.
“Acquisire consapevolezza della natura dei suoni, per noi sordi, richiede molto tempo – spiega Giulia – serve molta esperienza. Ultimamente sto lavorando su me stessa per capire la mia percezione della musica senza l’aiuto degli apparecchi”. Un percorso che inizia avvicinando le mani alla cassa di una radio o di uno strumento per individuare le vibrazioni emanate. Ma che termina con qualcosa ancora più emozionante: “Quando suono senza sostegni acustici il suono mi sembra talmente reale che è come se lo sentissi davvero. È una sensazione bellissima, è come un’eco lontana che non mi arriva nelle orecchie ma in tutto il corpo. Un’aria che mi avvolge dappertutto”.
Forte di queste emozioni, Giulia pensa che tutti i non udenti dovrebbero avvicinarsi al mondo della musica. “Credo che le persone sorde si sentano discriminate da qualcosa che ritengono di non poter conoscere e da cui si sentono precluse. Ma questo non è vero. La musica non esiste solo a livello uditivo. È qualcosa che riguarda la nostra interiorità. Le persone sorde dovrebbero avvicinarcisi con molto ottimismo. Quando la musica arriva a noi sordi, la sentiamo rimbombare dentro e da questo punto di partenza possiamo immaginarla e crearla”.
C’è però ancora tanta strada da fare. “Spesso lo studio della musica è riservato al mondo accademico e ha dei parametri stabiliti che non prendono in considerazione i non udenti. Ma penso che ci sia una strada parallela che si può percorrere, quella della musicoterapia. Sarebbe fondamentale, nessun sordo potrebbe dire di odiare la musica perché non può sentirla, dimostrerebbe che la musica si fa ascoltare da tutti, anche in modi differenti”.
Il parere dell’esperta: musicoterapia, questa sconosciuta
Le sette note possono davvero aiutare le persone con difficoltà e migliorare le loro condizioni? Ne è convinta la musicoterapeuta Giulia Cremaschi Trovesi, presidentessa onoraria della Federazione Italiana Musicoterapeuti, di cui è stata uno dei fondatori nel 1998.
Che la musica sia un’ottima compagna di vita non ci sono dubbi. Melodie e canzoni accompagnano la grande maggioranza delle persone, sia quando hanno bisogno di consolazione, di ricaricarsi, ma anche per ‘spegnere’ il mondo esterno per un po’ di tempo. Non solo: tantissimi studi hanno dimostrato che la musica agisce sul cervello stimolando l’attività neuronale in modo da produrre le beta endorfine, le sostanze del benessere.
Come ‘opera’ un musicoterapeuta? Lo specialista individua il problema del paziente e, attraverso la riproduzione di melodie, brani o suoni cerca di spingere il paziente a sentire non solo la musica, ma anche quello che prova dentro di sé durante l’ascolto. Un modo per disseppellire i problemi e il dolore e lavorarci sopra. Iniziando ad accettarli e ragionare su come poter migliorare.
La musicoterapia è considerata molto utile nella cura di alcune malattie, come il Parkinson o l’Halzheimer, ma difficilmente viene accostata alle persone sorde. Anche Giulia Cremaschi Trovesi ha associato i due mondi per puro caso: “Il mio lavoro si concentrava sui bambini autistici e psicotici. Poi, un giorno, un mio collega mi presentò il suo bambino, che era sordo e indossava l’apparecchio acustico. Fin da subito il piccolo fece amicizia con i miei figli e quando giocavano notai che si comportava in modo ‘normale’, era molto diverso rispetto agli altri bambini sordi, che avevano spesso problemi di comunicazione, di linguaggio e di comportamento”.
Il segreto, come l’esperta ha capito poco dopo, era proprio la musica. Questa consapevolezza l’ha spinta a proporre un percorso aperto ai bambini non udenti. “Ricordo che nella sala dove incontravo i bambini avevano posizionato un grande pianoforte a coda. La prima cosa che fecero i piccoli pazienti fu di salirci sopra e sdraiarsi. Erano affamati di suoni”.
Ancora adesso, la musicoterauta non riesce a spiegare pienamente come i sordi siano in grado di ‘sentire’. “Potremmo paragonare l’esperienza musicale – spiega – a uno spettacolo teatrale. Ciò che viene rappresentato è uguale per tutti, ma cambia il punto di vista dello spettatore, che può provare sensazioni rispetto a chi gli siede accanto. Non ci sono regole in questi mondi e i sordi mi hanno insegnato che non si ascolta solo con le orecchie, è il corpo che risuona in ogni cellula”. Un ricordo che le piace condividere riguarda i momenti con i primi bambini che ha avvicinato alla musica, quando lei suonava e i piccoli, seduti accanto alla cassa armonica, iniziavano a dondolare, spinti da chissà quale istinto primordiale.
La prima cosa che fecero i miei pazienti sordi fu salire sopra un pianoforte e sdraiarsi. Erano affamati di suoni
Tuttavia, la musicoterapia in Italia non ha ancora ottenuto lo sviluppo raggiunto invece in altri Stati, che l’hanno disciplinata con leggi specifiche. Nel nostro Paese le artiterapie sono regolamentate dalle Legge 4/2013, entrata in vigore dopo anni di richieste da parte degli specialisti di questo settore. La legge indica le artiterapie come percorsi paralleli e aggiuntivi a quelli sanitari, capaci di aiutare i pazienti a migliorare la propria vita quotidiana.
Perché, allora, la musicoterapia è ancora considerata una disciplina di serie B? Risponde Giulia Cremaschi Trovesi: “La società è impermeabile ai disagi delle persone e chi ha disabilità viene ancora inglobato in metodologie che preferiscono escluderlo da alcune attività piuttosto che inserirlo. Penso ai bambini ciechi che non potevano disegnare e appunto a quelli sordi che non potevano suonare. Le cose stanno cambiando, ma noi professionisti siamo troppo pochi. Non dimenticherò mai un politico a cui mi rivolsi per sviluppare un progetto musicale per i non udenti che mi chiese se avessi figli sordi. Quando gli risposi negativamente commentò: ‘E allora perché si preoccupa?’”.
Il coro Mani Bianche di Roma: “Cantare insieme, la cosa più bella”
Appena arrivati all’Istituto Figlie della provvidenza di Roma, in via don Gnocchi, la prima cosa che colpisce è il silenzio. Ogni cosa, perfino nel giardino, sembra ovattata. Non è però qualcosa di inatteso, dato che in queste mura per anni le suore della congregazione si sono occupate di bambini sordi e sordomuti, insegnando loro il linguaggio dei segni.
Tuttavia, una volta ambientati, anche gli udenti iniziano a percepire che quel silenzio in realtà nasconde una miriade di piccoli suoni fatti di sguardi, pensieri e braccia che si muovono nell’aria. Ed è qui che si riunisce il coro Mani Bianche, un gruppo formato da sordi e non che si incontrano per cantare insieme. Con la voce e con le mani, all’unisono. Per dimostrare che si può fare musica in tanti modi diversi, e che farla insieme è anche più bello.
“Il nostro è un coro inclusivo e trasversale perché accogliamo bambini e adulti, sordi e udenti” spiega la presidente Mimma Infantino che, assieme a Nadia Boccale, Maria Grazia Bellia e Tullio Visioli, ha fondato il coro a marzo 2015. I quattro sono un’equipe multidisciplinare perché hanno unito le proprie competenze. Mimma e Nadia si occupano della parte clinica, Maria Grazia e Tullio di quella musicale.
L’idea di creare un coro del genere nasce da lontano e precisamente nel Venezuela, quando nel 1975 Josè Mario Abreu diede vita a “El Sistema”, un metodo educativo incentrato sulla musica per favorire l’integrazione fra i giovani. L’intuizione di Abreu di fondare orchestre nei quartieri poveri, con l’aiuto del governo venezuelano, fu un successo: in 40 anni i cori diventarono ben 1500, coinvolgendo oltre 900 mila bambini.
L’idea di Abreu venne sviluppata ulteriormente da due suoi connazionali, Naybeth Garcia e Johnny Gomez. Fu con loro che nacque l’idea del coro Mani Bianche, un gruppo di bambini sordi che si esibiscono con la lingua dei segni, indossando come ‘strumenti’ dei guanti bianchi.
In Italia il primo coro di questo tipo è nato nel 2005 a San Vito al Tagliamento, in provincia di Udine, a cui è seguito nel 2010 quello della Scuola di musica popolare di Testaccio.
Il terzo è proprio quello di via Don Gnocchi. “Di solito il nostro coro è formato da 25 membri, mentre durante i concerti il numero aumenta perché chi non può partecipare agli incontri settimanali ci raggiunge per esibirsi insieme a noi – racconta Nadia – e spesso partecipano anche i parenti”.
“Sono nel coro perché mi piace tantissimo segnare e quando lo faccio mi sento felice” dice Debora, otto anni e sorella di una bambina più grande nata con una lieve sordità. Valentina, 24 anni, racconta che ciò che ama sono i viaggi che compie insieme al coro, perché si sta tutti insieme. Un modo per passare il tempo con chi può capirla, come mi spiega Maria Giovanna, la mamma, che ogni settimana la accompagna a Roma da Zagarolo. “È un sacrificio che faccio volentieri, perché qui Valentina si sente integrata. Purtroppo per i sordi ci sono poche attività e si ritrovano a stare quasi sempre con i genitori”. Diana, invece, viene dalla Russia e racconta che i suoi brani preferiti sono l’Inno di Mameli, “perché mi dà un senso di appartenenza” e l’inno “Audace Savoia”, che il coro ha scritto e interpretato per l’omonima squadra di calcio di Roma.
“Volare” di Domenico Modugno e “Le tasche piene di sassi” di Jovanotti sono le canzoni preferite di Gemma: “Mi sono iscritta al coro perché il movimento delle mani mi rilassa e quando segno questi testi provo tanta dolcezza”. Gemma è una degli ‘adulti’ come Riccardo, che partecipa al coro con la moglie, con cui ha avuto due figli udenti: “Indossare i guanti bianchi è l’inizio di qualcosa di incredibile, e lavorare con i bambini è bellissimo”. L’interazione tra adulti e bambini è fondamentale, dice Imma: “I primi sono un modello per i più piccoli, diventano degli insegnanti di vita”.
La comunicazione fra sordi e non udenti, fa notare Nadia, è stata da subito spontanea e immediata. “Noi non abbiamo fatto niente, l’integrazione fra loro ci ha colpito perché fin dal primo incontro non c’è stata nessuna barriera. C’è un modo di parlarsi fatto di gesti, mimica e gioco. E anche quando incontriamo altri cori c’è tantissima curiosità da parte dei sordi nei confronti degli udenti”.
La musica, sottolineano i quattro fondatori, ha reso i membri del coro diversi. Li ha cambiati, rendendoli più sicuri ed espressivi nella vita di tutti i giorni: “Sono diventati protagonisti, hanno abbandonato le loro insicurezze e la loro fragilità”.
A spiegare cosa rende i sordi molto schivi è Tullio: “La maggior parte di loro non usa la propria voce perché pensa che sia brutta. Tra i nostri scopi c’è quello di spiegare che non è così e che comunque anche molti udenti sono stonati. Noi vogliamo dare diritto alla loro voce perché quando la utilizzano è come se si liberassero da qualcosa. Inoltre, loro sentono anche meglio di noi. La vivono fisicamente con effetti sul corpo”. Gli fa eco maria Grazia: “Per aiutarli non facciamo lavori a senso unico, spesso lavoriamo su canzoni che traduciamo in Lis ma a volte capita il contrario, partiamo da un testo scritto da loro che proviamo poi a musicare. Il nostro risultato deve essere un incontro fra i due mondi”.
Continua Tullio: “Lavorare con i sordi ci ha permesso di scoprire un tipo di comunicazione profondo, arcaico e potente. È come se loro fossero i portatori di un’antica energia, di una forza che si è un po’ persa con l’uso della parola”.
I quattro fondatori si augurano di mostrare il più possibile la loro esperienza: “Il nostro è un lavoro di nicchia – commenta Imma – ma sarebbe bello estenderlo a tappeto nelle scuole. Aiuterebbe i ragazzi con qualsiasi fragilità, il bello della musica è proprio quello di essere per tutti”.
La musica di Marianna: voce e mani per chi si sente solo
“Ho sempre avuto nel cuore la voglia di cambiare il mondo con la mia musica” racconta Marianna Combi, 18 anni e una voce che ricorda il cristallo. Un desiderio che questa giovanissima ragazza di Abbiategrasso, in provincia di Milano, porta avanti da quando ha iniziato a cantare ad appena sette anni.
La musica l’ha portata fino all’ultima fase del talent Sanremo Young 2018, dove ha calcato il palco dell’Ariston portando un inedito scritto da lei dal nome “La voce nelle mani”. Un titolo rivelatore perché Marianna non ha cantato solo con la sua voce, ma ha tradotto il testo in lingua dei segni, la Lis (Lingua dei segni italiana).
Un modo per coinvolgere anche chi non può ascoltarla attraverso l’udito. “La musica secondo me è una sorta di ultrasuono, io credo che si possa percepire in modo reale attraverso il sentimento. Perciò credo che anche le persone sorde possano ‘sentire’, vivendo la musica e emozionandosi senza barriere sociali”.
L’idea di Marianna nasce nel 2012, quando a 11 anni ha iniziato a frequentare un corso per imparare la Lis organizzato dal Comune della sua città. È in questo corso che conosce una ragazza sordomuta che le parla della sofferenza, per chi non sente, di non poter ascoltare la musica. E subito, racconta Marianna, inizia a tradurre per la sua nuova amica i testi delle canzoni che lei ascolta alla radio. Da “La cura” di Battiato a “Eppure sentire” di Elisa.
Per farlo, spiega, ci è voluto molto impegno: “È stato un percorso molto difficile, la Lis ha una grammatica completamente diversa dall’italiano, perciò quando canto e ‘segno’ contemporaneamente è come se stessi parlando due lingue”. A farle capire che, nonostante la difficoltà, stava svolgendo un ottimo lavoro è stata proprio la comunità dei sordi: “I non udenti hanno apprezzato il mio modo di considerare la musica e molti di loro mi seguono giornalmente nelle mie pagine social”.
Per ora Marianna frequenta il quarto anno dell’Istituto tecnico socio-sanitario di Mortara e in futuro vuole continuare a cantare con le mani e i segni che, come dice anche la sua canzone, “sono carezze nell’aria”. Un’ambizione che lei si augura possa raggiungere più persone possibile, non solo quelle non udenti: “La musica è una grande compagnia, per questo vorrei trasmetterla a chiunque, è un modo per vivere meglio. Spero di riuscire a realizzare il mio sogno, perché penso che nel mondo ci sia spazio per qualcosa di nuovo. È anche un modo per renderci conto che ognuno di noi con poco può fare tanto, a qualsiasi età e in qualsiasi situazione”.
Scheda: cos’è la Lis
In Italia i sordi sono circa 877 mila e secondo le statistiche un bambino ogni mille nasce con problemi di udito. Nel nostro Paese 45 mila non udenti lo sono dalla nascita, mentre gli altri hanno dovuto affrontare la perdita progressiva di questo senso.
Anche per questi motivi, all’interno della comunità sorda si comunica in vari modi. Ci sono, infatti, i sordi oralisti, capaci di parlare e di leggere il labiale; i sordi impiantati, che utilizzano gli apparecchi acustici, che parlano ma non leggono il labiale; e infine i sordi segnanti, che parlano con la Lis, la lingua dei segni italiana.
A vedere un sordo “segnare” l’aria con le mani si rimane affascinati. Sembrano le mosse di un prestigiatore, di un mago alle prese con i suoi poteri o di un direttore di un’orchestra invisibile. Ma per i sordi la lingua dei segni è qualcosa di ancora più potente, è la possibilità di comunicare con chi li circonda in modo veloce e diretto.
Il linguaggio dei segni è una lingua ‘slegata’ da quelle parlate, ha le proprie regole di grammatica e sintassi e unisce la gestualità delle mani all’espressione facciale, che sostituisce i toni utilizzati nel parlato per trasmettere gli stati d’animo, dall’ilarità alla tristezza.
La lingua dei segni non è codificata in modo universale: ogni comunità sorda ha la propria e in molte si utilizzano perfino delle forme dialettali e un segno può cambiare completamente significato da una lingua all’altra. Insomma, un mondo complesso a cui in passato il mondo politico ha dato però poca importanza.
Le prime leggi che regolamentano la lingua dei segni sono quelle del Parlamento Europeo, che affronta l’argomento con le risoluzioni del 1988 e del 1998. Con l’approvazione di questi testi il Parlamento invitava gli Stati membri ad abolire ogni ostacolo esistente all’utilizzo di questa lingua e a favorirne la conoscenza nelle scuole e nei luoghi pubblici.
Un altro passo in avanti avviene il 13 gennaio 2006 con l’approvazione della Convenzione ONU sui diritti delle persone con diversità, con la quale l’Assemblea invita a combattere le discriminazioni delle persone con deficit. Tra le altre cose, l’ONU chiede il riconoscimento della lingua dei segni attraverso leggi specifiche che possano agevolare le persone sorde nella loro vita quotidiana.
In Europa l’Italia è – insieme al Lussemburgo – il fanalino di coda. Solo il 3 ottobre 2017, infatti, la Lis è stata riconosciuta ufficialmente dal Senato con un disegno di legge proposto dal relatore Francesco Russo del Partito Democratico e approvato con 133 voti favorevoli, uno contrario e 61 astenuti.
Il disegno di legge n. 132, la Legge quadro sui diritti di cittadinanza delle persone sorde, con disabilità uditiva in genere e sordocieche, è composto da 14 articoli che riconoscono e tutelano i diritti delle persone sorde, favorendone l’inclusione in posti come scuole, università e ospedali ma anche in ambienti frequentati nel tempo libero, come musei e monumenti.
Questo servizio è un Progetto di fine corso per il biennio 2016-2018 dell’Istituto per la Formazione al giornalismo di Urbino (IFG), pubblicato il 28 marzo 2018