“Nel ’68 volevamo cambiare il mondo”: cronaca di una rivoluzione che passò anche a Urbino

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di Giovanni Bruscia, Maria Concetta De Simone, Antonella M. A. Mautone, Martina Milone, Federica Olivo e Giacomo Tirozzi

DA PARIGI A URBINO, I SOGNI DEI SESSANTOTTINI – GUIDO E CLAUDIA: UN AMORE NATO IN QUEI GIORNI  FRANCESCO E LE LOTTE PER IL RICONOSCIMENTO DI SOCIOLOGIA – MAURO: “IO TRA I PIÙ DENUNCIATI”
LO SGUARDO DI PIERSANTI SUL ’68 – IL LIBRO DI BRUNA SUL ‘SUO’ SESSANTOTTO
MARIA PIA: “UN DIARIO PER RACCONTARE I GIORNI CHE CAMBIARONO LA MIA VITA
IL RACCONTO DELLE PROTESTE NELLE FOTO DELL’EPOCA

Urbino, 5 marzo 1968. A Roma c’è già stata la “battaglia di Valle Giulia” quando studenti e Polizia si sono affrontati per ore sulle scalinate della facoltà di Architettura. A Urbino da giorni ci sono pacifiche occupazioni, assemblee, volantinaggi. Le prime facoltà occupate sono Lettere e Magistero. Sta iniziando il Sessantotto, il movimento che, cinquant’anni fa, ha innescato un processo di profondo cambiamento nella società. Inizia una rivoluzione culturale che cambierà la storia. La mattina di quel 5 marzo, anche a Urbino, il sessantotto diventa Sessantotto con la esse maiuscola. I ragazzi del Movimento studentesco che sta nascendo, gli studenti di sinistra, vogliono occupare la facoltà di Giurisprudenza. Un gruppo di estrema destra cerca di impedirlo. Prendono delle funi, le legano a uno dei battenti del grande portone di accesso al palazzo di via Saffi e, con forza, lo scardinano. La tensione è alta ma alla fine il portone torna al suo posto e l’occupazione ha inizio. Per i giovani del Movimento è la prima vittoria.

Uno dei momenti della “battaglia di Valle Giulia”

Da quel giorno anche la piccola università di Urbino (il rettore è Carlo Bo e gli studenti sono meno di 9000) vive i mesi della protesta studentesca in una città che, a volte, non le è amica. Le cronache di quei tempi, appannaggio de Il Resto del Carlino, definiscono gli studenti “fanatici comunisti filocinesi guidati come marionette dal partito” e raccontano solo una parte di quella storia.

I ragazzi del Movimento sono definiti “facinorosi”, incapaci di pensare e strumentalizzati dai capi politici della sinistra. Ma gli studenti sono motivati da un desiderio di cambiamento. Vogliono prendere in mano le loro vite ed essere artefici del loro futuro. Un futuro che sarà fatto, immaginano, di emancipazione, di libertà e di diritti per tutti, in ogni angolo del mondo. Chiedono di avere uno stipendio per poter frequentare l’università senza essere costretti a lavorare per mantenersi – la maggior parte di loro, infatti, non può contare sul sostegno economico della famiglia per pagare le spese universitarie – di scegliere i percorsi didattici da seguire perché sono stanchi dei  programmi stabiliti dall’istituzione, senza che a loro sia chiesto alcun parere, che nelle commissioni d’esame ci siano anche gli studenti, perché a determinare il voto non devono essere solo i professori.

Il loro obiettivo è rivoluzionare la società, in ogni suo ambito. Vogliono scardinare un contesto che giudicano troppo autoritario, in cui gli unici principi accettati sono quelli borghesi e abolire il consumismo che, ritengono, genera disuguaglianze e addormenti il pensiero. Nelle loro parole ci sono rabbia ed entusiasmo. Credono che la rivoluzione sia lì, a portata di mano, che tutto sia possibile. “Eravamo felici e volevamo cambiare il mondo”, racconta Bruna Tamburrini, insegnante e scrittrice che vive vicino a Fermo. Alla fine degli anni ‘60 studiava a Urbino e nel libro Il mio Sessantottoha raccolto i suoi ricordi del periodo delle contestazioni giovanili.

Un’assemblea a Urbino nei primi anni ’70. Foto di Alberto Borredon

Le ragazze, anche nella piccola Urbino, iniziano a rivendicare un ruolo diverso nella società. Partecipano attivamente alle assemblee, disobbediscono ai genitori che non capiscono le loro ragioni e iniziano a vestirsi seguendo la moda che arrivava dall’estero. Sono stanche di essere spettatrici, vogliono essere protagoniste di quel cambiamento. Seguono miti fino ad allora sconosciuti. “Miti come la minigonna di Mary Quant che noi ragazze, in Urbino, anche se non proprio una città del Nord, indossavamo con disinvoltura, mentre le nostre amiche che dal Sud venivano a iscriversi all’università lo facevano con più imbarazzo, soprattutto perché subivano un maggiore controllo sociale da parte dei genitori e dei fratelli”, racconta Lella Mazzoli, oggi direttore della scuola di Giornalismo di Urbino che nel Sessantotto era una studentessa.

Giovani a Urbino nei primi anni ’70. Foto di Alberto Borredon

Gli universitari di Urbino non si limitano a occupare le aule delle loro facoltà. Le proteste si spostano anche davanti al Rettorato. Le cronache dell’epoca raccontano che, verso la fine dell’inverno, 25 universitari si distendono davanti all’ingresso del palazzo. Il loro obiettivo è non far entrare i docenti. Hanno appena partecipato ai controcorsi – voluti dagli studenti in opposizione alle lezioni convenzionali – ma vogliono lanciare un segnale forte ai vertici dell’Università. Prendono la parola uno alla volta e leggono uno dei documenti più importanti per il Movimento: la dichiarazione messa a punto dagli studenti dell’università di Torino dove le contestazioni erano iniziate già alla fine del 1967, con l’occupazione di Palazzo Campana, sede del municipio.

Con l’arrivo della primavera a Urbino continuano le agitazioni degli studenti. Nei primi giorni di aprile gli iscritti a Farmacia lanciano sostanze lacrimogene contro i ragazzi che stavano facendo un sit-in di protesta. A fine mese le facoltà occupate sono tre, le lezioni sono sospese e gli esami bloccati. Non tutti, però, partecipano alle contestazioni. Il Resto del Carlino sostiene che alcuni studenti fuori sede sono così spaventati dalle proteste al punto da lasciare la città per tornare a casa. “In due mesi gli urbinati hanno perso 12 milioni di lire”, si legge in un articolo.

A maggio, intanto, Parigi diventa il cuore delle proteste, è il Maggio francese. L’espulsione di alcuni studenti anarchici dall’università di Nanterre provoca l’occupazione degli atenei, manifestazioni in tutta la città e barricate al Quartiere Latino, poco distante dalla Sorbona. La Polizia carica i contestatori. Dalle finestre le persone gridano insulti contro gli agenti. Appoggiano gli studenti, prendono parte alla protesta. In quelle settimane si marcia, si urlano slogan contro la guerra in Vietnam, si cantano nuove canzoni. Nei cortei si respira la rabbia contro il sistema, ma anche la gioia. È la gioia di chi sa che sta riscrivendo la storia.

Una delle manifestazioni del Maggio francese

A giugno la tensione tra gli studenti, anche a Urbino, si fa più alta. Un gruppo anonimo di universitari scrive una lettera ai colleghi che occupano le facoltà: “Non avete rispetto per le istituzioni italiane. Disconoscete l’esistenza di un Parlamento legalmente eletto. Voi ricchi distruggete la cultura italiana che ha solide fondamenta e create un grave danno alla città di Urbino”. Nasce, proprio in quei giorni, Rinnovamento studentesco, un’associazione che si oppone alle ragioni e ai metodi del Movimento.

Le contestazioni vanno avanti per tutto l’autunno. C’è un avvenimento di cui molti studenti dell’epoca si ricordano: l’incendio dei laboratori della facoltà di Farmacia. “Un episodio triste e per niente difendibile che aveva visto tanti dissociarsi e credere che la partecipazione doveva esprimersi in altro modo”, ricorda ancora Lella Mazzoli. Il 17 febbraio 1972 un altro evento segna la storia delle contestazioni studentesche urbinati: l’incendio dell’istituto di Filologia: “Sei studenti fascisti volevano sostenere l’esame in modo diverso dagli altri. Sono nati quindi dei tafferugli con gli studenti del Movimento che si opponevano alla loro richiesta- ricorda Carlo Migani che all’epoca frequentava l’istituto d’Arte – ad un certo punto è iniziato un incendio. Non si sa quale delle due fazioni l’ha appiccato né da dove sia partito. I ragazzi di estrema destra si erano chiusi in bagno e, quindi, rischiavano di morire. Per salvarli i Vigili del Fuoco li hanno tirati fuori da una finestra. Poco tempo dopo i fascisti sono stati decorati da Giorgio Almirante (allora segretario del Msi, ndr)”.

È dicembre quando una battaglia unisce studenti e cittadini urbinati: le proteste per il mancato riconoscimento della facoltà di Sociologia. Il 5 dicembre un gruppo di giovani dell’Istituto di Scienze Sociali occupa la sede del Comune. Hanno paura di finire il corso senza avere una laurea, di avere investito denaro e anni di studio in un percorso che non darà loro alcun riconoscimento legale. Capiscono che devono organizzarsi e rendere pubbliche le loro richieste. La scuola di studi sociologici di Urbino era nata nel 1965 ed era la seconda in Italia. La prima era quella di Trento fondata nel 1962 e riconosciuta come facoltà nel 1966. Proprio nella facoltà di Sociologia di Trento va in scena la prima occupazione del periodo delle contestazioni in Italia. A organizzarla sono Marco Boato, tra i fondatori di Lotta Continua e poi senatore, Renato Curcio, che qualche anno dopo avrebbe dato vita alle Brigate Rosse, e Mauro Rostagno, giornalista ucciso dalla mafia nel 1988.

Passano due anni prima che Sociologia a Urbino sia riconosciuta come corso di laurea. Nell’aprile del 1970 iniziano a laurearsi i primi studenti che frequentano il corso.

Un’assemblea, a Urbino, nel 1973 sulla situazione politica cilena

I cortei, le assemblee e le occupazioni continuarono negli anni successivi. A Urbino come nel resto d’Italia. Le tracce di quelle manifestazioni ci sono anche sui social network dove sono nati gruppi in cui gli studenti del tempo condividono gli scatti e i ricordi delle contestazioni. Uno di questi è “A Urbino negli anni ’70” che raccoglie, tra l’altro, le immagini delle iniziative studentesche organizzate in quegli anni in città.

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Guido e Claudia: “Sognavamo di cambiare il mondo, ma non ci siamo riusciti”

Guido Cavazzani e Claudia Pandolfi riassumono così il loro Sessantotto. “Ci siamo conosciuti durante un’assemblea nell’aula 23 – 14. Poco dopo, nel marzo 1968, nel pullman verso Roma, ci siamo messi insieme. A Roma abbiamo aiutato i compagni quando i fascisti hanno occupato la facoltà di Giurisprudenza. Due anni dopo siamo diventati marito e moglie”, raccontano.
Come coppia hanno sempre vissuto in via Giro dei debitori, nella casa di famiglia di Claudia, a pochi passi dal collegio il Colle, dove Guido, torinese d’origine, viveva da studente. “Mi ricordo ancora quando Claudia scavalcava per venirmi a trovare ai collegi”, racconta Guido.

Una manifestazione del ’68

“Con il Movimento studentesco cercavamo di dare un respiro internazionale a Urbino”, racconta Guido. Nelle occupazioni, nelle assemblee, ricorda, si faceva sempre riferimento al Maggio francese alla Cina o al Vietnam. “ ‘Parigi brucerà, Urbino brucerà’ era uno dei nostri motti preferiti”, spiega Guido. “Venivo da una famiglia cattolica, in parte ho rovesciato i miei valori”. “Io – dice Claudia – venivo da una famiglia di radicata convinzione comunista, per me il ’68 è stato un momento di confronto sui modi di vivere, più che un rovesciamento delle mie convinzioni”. E sulla presa di coscienza femminile sottolinea: “In realtà i ragazzi del Movimento ci mettevano a fare gli striscioni. Più che un traguardo fu un punto di partenza per le donne”.

Forte era anche il legame con la popolazione. “Nella tradizione di sinistra di Urbino erano tutti antifascisti come noi”, sottolinea Guido.

Il luogo di ritrovo del Movimento era il chiostro dell’Istituto di Filosofia, lungo via Saffi. Lì era scritto a caratteri cubitali “Solo il popolo è il motore della storia”. “Era la nostra frase simbolo”, ricorda Guido, il più ‘rivoluzionario’ della coppia.

Il ricordo intimo di quegli anni è di Claudia, all’epoca solo diciottenne: “Considero il ’68 una bella eredità, una rivoluzione personale”, conclude.

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Assemblea all’inizio degli anni ’70

Il ’68 di Francesco: i Ciliegi e le lotte per il riconoscimento di Sociologia

Ha avvolto il figlio appena nato appena nato nell’eskimo verde con la fodera viola che aveva religiosamente conservato dai tempi delle battaglie e delle occupazioni a Urbino, promemoria del Sessantotto e di una “rivoluzione”. “Mio figlio è nato con la sciarpa rossa”, racconta oggi, a distanza di 50 anni dalle lotte, Francesco Siliato, classe 1948, tra i primi a scendere in piazza nella città ducale.

“Il mio ‘68 si può riassumere nel grido “Riconoscimento”, quello dell’Istituto di Sociologia come corso di laurea”, dice Siliato. “Quando sono arrivato a Urbino da Siracusa per studiare sociologia ho scoperto che non avrei mai ottenuto un diploma di laurea”. La sua lotta, nei quattro anni di permanenza a Urbino, dove si è laureato in Scienze Politiche nel 1971, è stata quasi interamente dedicata all’Istituto di sociologia. “Erano stati gli stessi docenti a spingere affinché manifestassimo per farlo riconoscere come facoltà”. Obiettivo che venne raggiunto solo nei primi anni ’70.

Nei corridoi del collegio Il Colle, ricorda, presero vita le prime assemblee. “Era un posto magnifico, ma con molte limitazioni come fosse gestito dalle suore”. Maschi e femmine divisi, con un bar interno dalla chiusura tassativa a mezzanotte. “Le prime richieste furono per abolire le restrizioni – racconta – Si vide fin da subito la contrapposizione destra – sinistra. I fascisti preferivano l’ordine e la disciplina, ma alla fine vincemmo noi”.

Tra i ricordi più vividi c’è la ‘protesta delle mele’. “Eravamo stanchi di mangiare solo quel frutto – racconta Siliato – Quindi una volta a mensa raccogliemmo tutte le mele che ci avevano dato e le portammo al tavolo della ‘direttora’ in segno di ribellione”.
“Il nostro gruppo si chiamava i Ciliegi, come il primo fiore di maggio”, racconta con un riferimento chiaro al maggio francese. “Per noi quelli del Movimento studentesco erano esagerati, ci sentivamo più avanti nella lettura degli eventi, più ‘ironici’ pur nella serietà”.

Nella sua vita di studente “rivoluzionario” Francesco Siliato non ricorda scontri con la polizia. “Una volta che occupammo sociologia venne chiamata la polizia, ma lo ‘scontro’ finì con una trattativa”, conclude.

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La contestazione negli anni ’70 e gli scontri con i fascisti

“Le nostre lotte erano per i presalari, per il caro affitti, e per il diritto allo studio”. Comincia così il racconto di Mauro Murgia, studente alla Carlo Bo di Urbino dal ’71 al ’76, gli anni più vivi della rivoluzione universitaria. Secondo l’allora capo del Movimento studentesco l’obiettivo del gruppo era quello di “studiare in maniera diversa”.

Le battaglie quotidiane però, erano quelle contro i fascisti. “Credo di essere la persona più denunciata a Urbino”, racconta Murgia, andato a processo 13 volte. “Una volta bloccammo i fascisti che erano venuti a provocarci al circolo universitario e li scortammo in commissariato. Fummo denunciati per sequestro di persona e violenza privata”. A processo il pm Sardelli chiese sei anni, ma a difendere i sessantottini, gratis, come sempre, arrivò l’avvocato Lucio Paleani. “Era l’unico legale di sinistra a Urbino”, spiega Murgia.

Iniziativa sulla resistenza in Cile organizzata al teatro Sanzio nel 1973. Foto di Alberto Borredon

“Una volta venni arrestato durante gli scontri per Gonella”, racconta l’ex leader. Il riferimento è alla seconda visita che l’allora ministro di Grazia e Giustizia, il democristiano Guido Gonella, fece a Urbino nel ‘73. Gli studenti lo accolsero con delle trombe, intonando ‘Bandiera Rossa’. “Già due settimane prima avevamo protestato contro di lui – ricorda Murgia – Quando arrivò con Carlo Bo ci chiudemmo dentro l’Aula sesta, in segno di protesta, ma il rettore non chiamò la Polizia”.

Tra gli obiettivi del Movimento studentesco, ricorda Murgia, c’era anche il diritto allo studio, soprattutto delle ragazze. “Riuscimmo a raggiungerlo grazie al controllo politico degli esami – racconta Murgia – Alcuni professori non amavano le donne, le bocciavano spesso. Così, una volta, irrompemmo durante un esame”.

Anche lui, come Francesco Siliato, conserva ancora nell’armadio l’eskimo che indossava a Urbino. Ricordo, insieme alle poche foto con in mano il giornale del Movimento studentesco di Milano, di quelle giornate.

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Lo sguardo di Piersanti sul ’68: “La più grande vittoria? La liberazione della donna”

Umberto Piersanti, poeta e professore dell’Università Carlo Bo, nel ’68 era uno solo studente, di 27 anni, ed entrò nel Movimento studentesco: “Alle assemblee provavo a mettere in discussione quello che dicevano gli altri membri. Ma molte volte ero contestato violentemente. Quando ho criticato la Cina sono stato insultato e offeso – ricorda – A differenza di molti altri non avevo le manie dei fanatici. C’era una gran voglia di cambiare il mondo e le sue strutture sociali. Abbiamo sconfitto il tabù della verginità. Ma sono rimaste delle zone d’ombra come i riferimenti a regimi dittatoriali cinesi e russi, lontani oggi dalla nostro modo di pensare”.

La più grande vittoria del ’68, per Piersanti, è stata la liberazione dei costumi: “Le donne hanno iniziato a prendere la parola, prima non lo facevamo mai. Durante le assemblee non era insolito vedere una ragazza che parlava in pubblico. Questa, accanto alla liberazione sessuale, è stata una grande vittoria. – sostiene il professore – A volte poteva capitare che una donna salutasse allegramente il proprio compagno prima di andare con un altro”.
Il Movimento voleva esami di gruppo e il voto collettivo. Durante le prove i professori mettevano quasi sempre 30 o 30 e lode. “Si studiava molto per conto proprio, ma gli esami erano delle sciocchezze. Il merito non veniva premiato e visto come qualcosa di negativo – ricorda Piersanti- Molte volte il professore era sotto controllo di una sorta di commissione studentesca che ne verificava l’operato”.

Concerto organizzato dal Movimento studentesco nel 1974

Uno degli episodi che Piersanti ricorda bene è la spedizione attuata da alcuni esponenti del Movimento per impedire la proiezione di un film celebrativo sulla guerra del Vietnam, Berretti Verdi con John Wayne. “Gli studenti andarono in macchina a Fano e urlarono agli operatori di uscire dal cinema. Sostenevano che era un film fascista e per questo non poteva essere proiettato. Alla fine riuscirono nel loro intento”. Piersanti ricorda anche di quando un gruppo di fascisti cercò di porre fine all’occupazione dell’università: “Si presentarono alle porte dell’ateneo dicendo che a loro non interessava la politica, volevano solo fare le lezioni. Tentarono di sfondare il portone, ma alla fine fummo salvanti dall’intervento del segretario della sezione locale del Pci”.

Il professore è rimasto coinvolto anche nell’occupazioni delle scuole superiori. “All’epoca facevo il supplente all’istituto magistrale quando i ragazzi decisero di occupare. Mi resi disponibile organizzando dei gruppi di studio”.

In quei mesi una studentessa rimase incinta e non fu più ammessa a scuola. Riuscì a intercedere con il preside per farla riammettere all’istituto in modo tale che potesse seguire le lezioni. È forse il contributo più concreto che ho dato al ‘68”.torna al menù

“Chi si laureava in ritardo era un eroe che resisteva al sistema”. Il 68 urbinate di Bruna

Bruna Tamburrini, scrittrice e insegnante

Ha vissuto il Sessantotto in prima persona da quando si è trasferita a Urbino per studiare all’Università nel 1969. Un periodo di cambiamenti che la scrittrice e insegnante Bruna Tamburrini ricorda con passione: “Eravamo tutti anticonformisti e volevamo cambiare il mondo – ricorda – anche se alla fine, forse, ci siamo imborghesiti”.

Come era Urbino in quel periodo?
“Iniziai lettere moderne all’Università nel 1969. Frequentavamo il circolo dell’università, un bar per studenti. I giovani di sinistra si riunivano al Cut (centro teatrale universitario). Per le strade si potevano sentire cori come ’Fascisti carogne tornate nelle fogne’, o ‘Fascisti, borghesi ancora pochi mesi’. Sui muri esterni del circo comparivano scritte come ‘Viva Mao’ o ‘Contro gli americani e la guerra del Vietnam’.

Che cosa volevate voi studenti del ’68?
“Eravamo contro il lusso dei borghesi. Volevamo e dovevamo essere proletari per costruire un mondo più giusto. Il nemico di tutti era il capitalismo. Il nostro mito era Che Guevara. Chi era ricco non era ben visto, anche se molti di noi provenivano da un ambiente borghese”.

Ricorda qualche personaggio in particolare?
“C’era il Duca Materasso II, il vero padrone della mensa e un veterano dell’università. Stabiliva il prezzo del pasto e se qualcuno aveva qualche problema lo aiutava a risolverlo. In quegli anni chi non si laureava in tempo era visto come un eroe che resisteva al sistema”.

Studenti davanti alla mensa di via Valerio. Foto gentilmente concessa da Carlo Migani

Quali episodi le sono rimasti impressi?
“Durante le lezioni dovevo stare attenta perché da un momento all’altro poteva avvenire una manifestazione di tipo violenta e quindi ero costretta a scappare. Una volta a Sociologia un professore fu rinchiuso dentro l’aula per essersi rifiutato di dare un 30 politico. Poi un giorno fu bruciata la biblioteca di Magistero. L’episodio che ricordo più limpidamente avvenne quando abitavo a San Bartolo. Ci fu una guerriglia lungo il vicolo tra estremisti di sinistra e fascisti. Questi erano sui tetti con i fucili”.

Con i fucili?

“Sì, con i fucili, lo ricordo bene”.

Quali sono state le conquiste del ’68 ?
“Siamo usciti da un ambiente retrogrado, soprattutto per la donna e per i suoi diritti, ma alla fine ci siamo imborghesiti siamo diventati anche noi parte del sistema”.

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Il diario racconta. “Così in quei giorni cambiò la mia vita”

Per Maria Pia Di Nicola, originaria di Roseto degli Abruzzi, il Sessantotto è stato così importante che ha deciso di affidare i suoi ricordi a un diario personale, “Binario 21”, consegnato nel 2008 all’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano.
È il maggio del 1968. Maria Pia è studentessa di Pedagogia a Urbino. “È l’anno spartiacque della mia vita”, scrive nel diario. Maria Pia è in aula e assiste a un battibecco tra alcuni studenti che “volutamente disturbavano” la lezione di storia medievale del professor Cantarelli. “Basta con il nozionismo, basta con la lezione ‘frontale’, basta con la demagogia e l’autoritarismo. Noi studenti vogliamo una Università diversa e nuova!”. Il professore impallidisce, sospende la lezione e in aula “ci fu sconcerto”. Maria Pia all’inizio è scettica, non sa se unirsi o meno alla lotta dei suoi colleghi. “Non capivo, avevo paura”. Poi, un giorno la svolta: “Dopo una lezione facemmo un’assemblea enorme nell’aula magna di Magistero insieme a ragazzi anche di altre facoltà. Da quel momento Urbino ha cambiato il mio modo di concepire la condizione degli studenti, soprattutto quando rivendicavano una nuova consapevolezza per il diritto allo studio e si ribellavano ai ‘padri padroni’”, scrive.

Alcuni ragazzi davanti al collegio, nei primi anni ’70. Foto gentilmente concessa da Carlo Migani

Infine, l’occupazione: dentro l’aula magna moltissimi studenti assiepati l’uno sull’altro pronti a prendere la parola e a confrontarsi. “Su un grande striscione posto sopra la cattedra c’era scritto ‘Università Occupata’, con un grande via vai di giovani”, scrive. Maria Pia non resta a dormire in facoltà, la sera va a casa e torna la mattina dopo. Lì trova “una pattuglia di poliziotti che stanziava davanti all’Università, bardata con armi e scudi in assetto di guerra, pronta ad attaccare”. Alcuni studenti escono e si scontrano in modo violento con le forze dell’ordine, scrive Maria Pia. In quei mesi di Urbino “ho iniziato a vedere il mondo da un’altra prospettiva, diversa da quella che fino a quel momento mi aveva trasmesso mia madre, originaria delle campagne abruzzesi. Lei era convinta che nonostante le proteste, le cose non sarebbero mai cambiate”. A Urbino viveva con altre ragazze della sua stessa città. “Dormivamo da una coppia di affittacamere; vivevano nella stanza accanto alla nostra. Il marito poi si alzava molto presto la mattina. Per non disturbarci addirittura camminava con le scarpe in mano. Questo – spiega – fa capire che quelli erano altri tempi, in cui c’era molto rispetto per gli altri”.

Il 3 marzo 1970 Maria Pia si laurea. “Lasciai Urbino ma con dolore. L’amavo e l’amo ancora quella città”. “Ci stavo bene psicologicamente, si trattava di una sicurezza per me inconsueta – racconta oggi – era nato un concetto di lotta che aveva come obiettivo quella di cambiare un sistema, volevamo che tutti potessero avere accesso agli studi universitari”.

Gli anni vissuti nella città ducale hanno condizionato molto la sua vita. Ha fatto politica. È stata consigliere comunale e assessore nella sua città, Roseto degli Abruzzi, dal 1974 al 1985. L’anno successivo è stata eletta consigliere regionale del Pci in Abruzzo. Oggi è un’insegnante di lettere e da molti anni è attiva nell’associazionismo cattolico.“Urbino è stato per me un grande, vero, amore. La porto sempre con me”, conclude.

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Il ’68 a Urbino negli scatti degli studenti di allora

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