di NICCOLÒ GAETANI
“Benvenuto sulle rive del Gange, amico mio”, saluta Gianluca Faltelli, 36 anni, proprietario del bar torrefazione San Francisco. Un locale dove gli “aò”, gli “mbè” e altre più disparate storpiature romane sono ancora di casa. “Fuori non più…”, sussurra a bassa voce indicando la fermata del trenino per Termini, distante appena una ventina di metri. Lo sguardo, dopo aver schivato le tre file di auto in sosta e i mercatini ambulanti che occupano buona parte del marciapiede, arriva finalmente a destinazione. Ed è lì, sotto a quel che rimane della scritta “Tor Pignattara”, che il senso delle parole di Gianluca si chiarisce: il quartiere popolare per eccellenza, che ha ispirato molti romanzi e film di Pier Paolo Pasolini, ha mutato i connotati trasformandosi in una delle zone più multietniche di Roma – e di Roma la quarta “capitale del Bangladesh” nel mondo.
Gli immigrati si stabiliscono qui per trovare lavoro e una vita dignitosa, proprio come fecero cento anni fa le persone arrivate dall’Italia meridionale. Sono romeni, marocchini, cinesi e soprattutto bangladesi, tanto che da qualche tempo al toponimo ufficiale e a quello più usato dai residenti, ossia “Torpigna”, si è aggiunto quello di “Banglatown”. Un concetto, o meglio un termine, che può essere poi esteso a tutto il territorio capitolino, diventato negli ultimi 20 anni il polo di insediamento privilegiato di questa comunità, la più numerosa dopo quelle di Dacca, Calcutta e Londra.
META’ DELL’ITALIA, TRE VOLTE GLI ABITANTI
Secondo l’Onu, all’inizio del 2016 i cittadini del Bangladesh emigrati all’estero erano più di otto milioni. Con i suoi 161 milioni di abitanti che vivono in un territorio grande come mezza Italia, questo Stato stretto tra India, Birmania e golfo del Bengala è il settimo Paese più popoloso del Pianeta. Tante persone quante se ne trovano in Russia, che però è 120 volte più grande. Il Bangladesh quindi, ad eccezione di una manciata di città-Stato, ha la più alta densità di popolazione al mondo, costretta a fare i conti con un contesto di diffusa indigenza (quasi un terzo dei bangladesi vive sotto la soglia di povertà), un assetto socio-economico di stampo semifeudale dominato da divisioni religiose e un territorio segnato ogni anno da inondazioni, cicloni e mareggiate.
“Ben si capisce, quindi, la centralità che il fenomeno migratorio ha assunto fin dal 1971, anno dell’indipendenza dal Pakistan – spiega Maria Paola Nanni, ricercatrice del Centro studi e ricerche Idos (Immigrazione dossier statistico) – È in quel periodo che l’emigrazione economica dal Bangladesh comincia ad assumere i tratti di un fenomeno di massa, sostenuto dalla crescente domanda di manodopera nei Paesi del Golfo e promossa dagli stessi indirizzi governativi”.
Varie politiche hanno fatto del Bangladesh un Paese d’emigrazione che considera il lavoro all’estero come fondamentale canale di compensazione degli instabili andamenti interni. Tra queste, la ratifica della Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti dei lavoratori migranti e delle loro famiglie (unico Paese asiatico insieme alle Filippine ad averla sottoscritta), la creazione nel 2000 del Ministry of Espatriates Welfare and Overseas Employment, finalizzato a valorizzare l’occupazione oltreconfine, ma anche il superamento nel 2003 di una riserva che limitava l’emigrazione per lavoro ai soli uomini. Decisioni che hanno favorito e incentivato la diaspora bangladese, fondamentale per l’equilibrio del bilancio statale. Un decimo del Prodotto interno lordo nazionale deriva dalle rimesse degli emigrati, una fonte di sostentamento vitale per le famiglie rimaste in patria.
BOOM DI ARRIVI DOPO IL 1990
Nonostante che il Bangladesh sia uno dei principali Paesi di origine dei flussi migratori internazionali, fino agli anni ’80 non c’era traccia della presenza bangladese in Italia. Le partenze verso l’Europa, iniziate verso la metà del ‘900, ricalcavano inizialmente le traiettorie tracciate dai legami post-coloniali, ed è per questo che i primi probashi (letteralmente “abitanti di fuori”) si sono diretti verso il Regno Unito. La situazione cambia radicalmente con la saturazione dello sbocco britannico, causato dallo Immigration act del 1971 che rendeva possibile l’espulsione anche dei “cittadini” del Commonwealth se sprovvisti di permesso di soggiorno. L’Italia, e in misura minore gli altri Stati del bacino del Mediterraneo, diventa una meta privilegiata, la destinazione ideale per una comunità che ha nella coesione del proprio tessuto comunitario il suo tratto distintivo.
Le prime cifre attendibili sulla loro presenza si hanno con la sanatoria autorizzata dalla legge Martelli del 1990, quando ai cittadini del Bangladesh vennero rilasciati 4.296 permessi di soggiorno, quasi tutti concentrati a Roma. In 25 anni si sono moltiplicati per 26 e oggi in Italia ci sono 115.000 bangladesi, un quarto dei quali nella capitale, circa 28.000 persone che equivalgono alla popolazione dei quartieri romani Pinciano e Salario. Dati che confermano come l’Italia sia diventata il principale terreno europeo di approdo delle migrazioni più recenti.
La penisola come porta d’ingresso per l’Europa, la predilizione per l’area romana, la Banglatown di Tor Pignattara, il ruolo delle donne e il desiderio di “guardare” altrove: Maria Paola Nanni illustra le principali caratteristiche della comunità bangladese trapiantata in Italia.
Ma che ci fanno tanti bangladesi in Italia e a Roma?
ISLAM SAIFUL E LA “GOLDEN ITALY”
“Ho scelto l’Italia perché all’epoca si poteva entrare facilmente”, spiega chiaramente Islam Saiful, mediatore culturale dell’Associazione Italia-Bangladesh e proprietario di un negozio di perle a due passi da piazza Vittorio, cuore pulsante del quartiere multietnico dell’Esquilino: “Sono arrivato nell’estate del 1989. All’inizio facevo l’ambulante sulle spiagge di Fregene, poi, dopo due estati di sacrifici, ho aperto questa attività. Da allora ho cominciato a pensare che l’Italia, più che una meta di passaggio, potesse essere il posto giusto in cui vivere”.
Per lui come per molti suoi connazionali, la costruzione del progetto di vita in Europa è iniziata da qui, dal Paese che nei primi anni ’90 offriva maggiori possibilità di ingresso e di regolarizzazione in virtù di un mercato del lavoro bisognoso di manodopera. Un pensiero, questo, condiviso da molti: tra la fine del 1991 e la fine del 2001, infatti, a fronte di un aumento medio della presenza straniera di poco superiore al raddoppio (più 123 per cento), la comunità bangladese è pressoché quadruplicata (più 297,8 per cento) – dicono i numeri dell’Idos – arrivando a superare le 22.000 presenze.
Un boom, spiega Islam Saiful, basato sul passaparola: “È stato decisivo il ruolo giocato dai primi arrivati: è a partire da loro che si sono attivate le catene migratorie verso l’Italia. Dopotutto, se non conosci non vai…”. Se conosci, invece, ti fai raccontare: “Sapevo che qui da voi era possibile sopravvivere anche senza un lavoro: ci sono mense gratuite, la polizia è tollerante e ogni tot anni erano anche previste delle sanatorie, che consentono la regolarizzazione degli stranieri che si trovano in un Paese senza valido titolo di soggiorno”.
La via più sicura per entrare è tuttavia il decreto flussi emanato ogni anno dal governo, che riservava quote di ingressi destinate ai bangladesi. “Tutto ciò in Inghilterra e Germania è impossibile. Lì ti danno asilo politico, ma è difficile ottenere la cittadinanza e puoi rimanere clandestino anche per dieci anni”. A ciò va aggiunto anche il mito della “Golden Italy”, che entro i confini del Bangladesh resiste ancora, altro motivo che allunga la fila degli aspiranti migranti. Tra i motivi che spingono a scegliere l’Italia, da ultimo, c’è anche il commercio, l’elemento che più di tutti accomuna i due popoli. “La nostra attività principale è quella”, assicura Islam, fierissimo di ricordare che al suo arrivo “l’Italia era la numero cinque del G8”.
Una potenza industriale, quindi. Ma non ancora un Paese di immigrazione. Si scoprì tale solamente a partire dal marzo del 1990, quando l’occupazione dell’ex pastificio romano della “Pantanella” da parte di centinaia di pakistani e bangladesi – seguitissima dai media – portò la questione migratoria al centro del dibattito pubblico nazionale.
Nove mesi di protesta durante i quali emerse anche la notevole attitudine dei bangladesi all’organizzazione politica. In quel periodo nacque la United Asian Workers Association (Uawa), portavoce delle istanze degli occupanti, qualche mese dopo la Bangladesh Association in Italy, la prima associazione composta esclusivamente da bangladesi, e fu grazie a queste due realtà che qualche anno dopo, nel 1996, gli immigrati ottennero un altro importante successo: grazie a uno sciopero della fame davanti a palazzo Chigi, portato avanti per più di un mese da un centinaio di bangladesi, il decreto adottato dal governo Dini in materia di espulsioni, dopo essere stato reiterato ben cinque volte, non fu convertito in legge (anche se il vero obiettivo dei manifestanti era di facilitare i regolamenti per ottenere il permesso di soggiorno).
“Quella battaglia l’abbiamo vinta noi – ricorda Islam – Dovevamo fare qualcosa perché le offerte per un impiego cominciavano a scarseggiare”.
Il nuovo governo di centro-sinistra, guidato da Romano Prodi, scrisse nel 1998 la prima legge organica sull’immigrazione, che la riconosceva ormai come “fenomeno strutturale”. “Finalmente – spiega oggi Islam Saiful – con la legge Turco-Napolitano, fu permesso a tutti l’ingresso per la ricerca di lavoro a prescindere da una richiesta del datore di lavoro”. Fu allora che i bangladesi uscirono dai ristoranti (dove lavoravano come cameriere e lavapiatti), e dalla strada (dove i più vendevano cianfrusaglie senza licenza), per cercare di avviare un’attività autonoma, quasi sempre unendo le forze di più famiglie.
SIDDEQUE NURE ALAM E IL SUO GIORNALE
“A Parigi ci sono sette milioni di immigrati. In tutta Italia sono cinque milioni e voi già avete mal di testa, pazzesco”. C’è la partita Bangladesh-India di cricket in tv, tutti gli schermi dell’internet point di via Casilina 525 sono sintonizzati sull’evento, la gente tifa, chi per una chi per l’altra Nazionale, ma a Siddique Nure Alam, per tutti “Bachu”, ha altri pensieri per la testa: “Sto scrivendo una mail al capo della polizia Alessandro Pansa. Secondo il nuovo regolamento, senza la residenza non è possibile rinnovare il permesso di soggiorno. Per questo motivo – aggiunge alzando sempre di più il tono – negli ultimi cinque mesi, solo a Roma, circa tremila immigrati sono diventati invisibili. Il paradosso è che pur avendo una casa non riescono ad ottenere il certificato di residenza”.
Laureato in Scienze politiche con il massimo dei voti, Bachu vive in Italia da 20 anni e lavora per la sua comunità. Dirige l’associazione Dhuumcatu, promotrice di molte manifestazioni nel quartiere e non, stampa uno dei tre giornali in lingua bengalese di Tor Pignattara e, in maniera più informale si fa portavoce delle istanze dei connazionali. Ora il problema è la residenza: “Il Comune non accoglie la domanda di residenza se l’abitazione non rientra nei parametri dei 14 metri quadrati a persona. Prima invece bastava il domicilio, era tutto più facile”. La frase finisce con un “‘taccivostra” – usato a mò di “roba da pazzi”, senza cattiveria – che strappa più di un sorriso ai presenti.
“La presenza dei bangladesi – racconta la ricercatrice Maria Paola Nanni – si è concentrata inizialmente all’Esquilino, tuttora territorio di insediamento dei giovani maschi soli che rappresentano una fetta importante della presenza bangladese in Italia e nel mondo. Oggi invece, anche sul piano comunicativo, è Tor Pignattara che rappresenta l’immagine della Roma bangladese. Lì, come nelle aree limitrofe, si sostanzia il loro cuore più familiare”.
Bachu ricorda i giorni successivi al suo arrivo, quando molti connazionali dalle bachelors’ house, le “case di scapoli” del I Municipio, iniziarono a spostarsi verso Est. “Qui ci sono tanti immigrati perché una ventina di anni fa i giovani italiani iniziarono a scappare da Tor Pignattara in cerca di lavoro, trasferendosi al Nord. Rimanevano i loro genitori, molti dei quali meridionali e, finito di lavorare, decidevano di tornare nei paesi d’origine, affittando i propri appartamenti per avere un’ entrata. In quelle case ora ci siamo noi. Paghiamo 8-900 euro al mese e, per questo, siamo spesso costretti a condividere l’alloggio con altre persone, per un massimo – dice dopo aver fatto mente locale – di dieci per appartamento”.
La domanda, a questo punto, sorge spontanea. “Chi ve lo ha fatto fare?”. La risposta, altrettanto spontanea, è geniale: “Dalle mie parti si dice che India, Pakistan e Bangladesh sono come tre fratelli, mentre l’Italia è la loro zia ricca”.
Secondo Bachu, quindi, questi Paesi non sono poi così distanti per cultura e mentalità. “Da voi così come da noi esiste ancora il concetto di ‘capofamiglia’, l’onore e il rispetto sono valori fondamentali e, almeno da queste parti, c’è quella propensione a fare le cose ‘alla romanella’ che ci fa sentire a casa”. Alla romanella, ossia un po’ così, arrangiandosi, se non addirittura tirando a campare. Come? Aggirando le lungaggini burocratiche che rendono difficile ottenere qualsiasi permesso e, in qualche caso, infrangendo le regole.
È il caso dei venditori ambulanti che affollano il quartiere facendo su e giù per i marciapiedi. Tutti abusivi secondo i commercianti romani, inferociti per quella che considerano una concorrenza sleale. Ma Bachu puntualizza: “Cosa significa non in regola? I bangladesi che svolgono un lavoro ambulante hanno: la partita Iva, l’autorizzazione della Camera di commercio, la licenza del Comune per poter svolgere l’attività itinerante e tutta la merce che vendono è comprata nei negozi, sempre con regolare fattura. C’è una sola cosa realmente abusiva, per la quale non si riesce ad avere il permesso: l’occupazione del suolo pubblico. Quando qualcuno va a chiedere l’autorizzazione, che sia italiano o immigrato, il municipio non te la rilascia”. Da qui, il trucchetto per aggirare la norma ed evitare multe salate: mettere le rotelline sotto alle bancarelle: “Così facendo, durante gli eventuali controlli, si può sempre dire che si sta in movimento, che si sta svolgendo un lavoro itinerante. Tiè”. Beccatevi questa, signor Tredicine e Comune di Roma, sembra voler dire Bachu, convinto che per gli immigrati che si comportano così non ci siano alternative.
Arriva il momento della preghiera pomeridiana e, prima dei saluti, Bachu introduce un altro argomento che gli sta molto a cuore: il suo giornale, il Dhuumcatu, che stampa ogni giorno – rimettendoci anche i soldi, afferma – per permettere alla comunità bangladese di Roma di rimanere in contatto con il proprio Paese. “Niente pubblicità e tanti fatti di attualità – dice – e sempre dalla parte dei lavoratori”. La testata, registrata al Tribunale di Roma nel 2001, rischiò la chiusura solo qualche mese dopo. All’indomani degli attacchi dell’11 settembre, infatti, uscì un articolo che parlava di un presunto complotto israelo-europeo ai danni dell’America. Il Dhuumcatu fu chiuso per favoreggiamento del terrorismo internazionale, i computer sequestrati, e da quel momento va avanti tra mille difficoltà. “Anche se simbolicamente, ma dobbiamo proseguire. Lo devo alla nostra collettività”.
MIZAN RAHMAN E LA COMUNITA’ NELLA COMUNITA’
A poche centinaia di metri di distanza, in via della Marranella 123, viene stampato “Terra madre”, un altro giornale in lingua bengalese. Si occupa di tutto Mizan Rahman, 37 anni, dipendente della copisteria dal 2014: “Vendiamo circa duecento copie al giorno. Noi, a differenza degli altri quotidiani, abbiamo molta pubblicità. Gli inserzionisti, titolari di vari negozi in giro per Roma, ci pagano e così riusciamo a coprire i costi di stampa”.
Mentre parla, Mizan Rahman continua ad attaccare volantini scritti in italiano e bengalese all’esterno del negozio: “Ne ho fatti tanti, alcuni come promemoria per la raccolta differenziata, altri per chiedere alle persone di non fare chiasso, specie durante la notte. Lo faccio perché spesso sento gli italiani dire ‘sti zozzi, e quell’insulto è rivolto a noi immigrati, ossia alla stragrande maggioranza delle persone che vivono alla Marranella”. È lì infatti che si può trovare la vera anima della Banglatown romana. Lungo la via, ad eccezione di due bar, della farmacia e di una piccola enoteca, tutto rimanda ai bangladesi. I nomi sui citofoni, le insegne di ristoranti, alimentari, macellerie e persino di una pescheria. C’è anche un centro culturale adibito a moschea – in tutto il quartiere sono cinque – e il venerdì, giorno sacro dell’Islam, c’è talmente tanta gente che molti sono costretti a pregare sul marciapiede.
“’Sti zozzi”, anche in questo caso è questo il commento più in voga tra i residenti italiani. E qui sta il conflitto interiore di Mizan Rahman, che di Roma si è innamorato 12 anni fa, appena messo piede in Italia dopo aver girato per anni tra Grecia, Germania e Francia. “Parlo romanaccio, gioco a calcetto e faccio il tifo per la Roma. Scherzando dico spesso che mi sono solo travestito da bangladese…”. Proprio per questa sua doppia identità, il ruolo che Mizan Rahman vuole svolgere nel quartiere è quello di mediatore culturale, per avvicinare le due comunità, italiana e bangladese, che continuano non trovare punti di contatto.
“La convivenza al momento è problematica – dice – Voi ci guardate con sospetto, ma devo dire che noi non facciamo nulla per venirvi incontro”. Quest’ultimo riferimento rimanda al concetto di “convivenza nella separatezza” teorizzato da molti analisti. Un modello, spiega Maria Paola Nanni, “solo apparentemente a-problematico, in quanto implica percorsi di inserimento incompiuti e che rischiano di degenerare in forme cristallizzate di esclusione sociale”.
Quella bangladese, in sostanza, rappresenta una “comunità nella comunità”. Questa tendenza a Tor Pignattara è più marcata che altrove.
“Prima che arrivasse mia moglie abitavo vicino alla stazione Termini”, racconta ancora Mizan Rahman, “Facevo il cameriere in centro e guadagnavo benissimo, con le mance anche duemila euro al mese. Ma mi sentivo a disagio perché toccando il maiale e servendo da bere ai clienti andavo contro i dettami del Corano. Era offensivo, haram, cioè vietato, e non mi sentivo in pace con me stesso. Allora mi sono detto: ‘Cambio lavoro, magari Allah mi perdona’. E appena è arrivata mia moglie mi sono trasferito qui, in un quartiere dove gli italiani sono sempre meno. Credo sia per questo che i miei connazionali non sentono il bisogno di scendere a patti con gli autoctoni. Qui sembra che gli stranieri siano loro”.
In questa partita, decisiva per la stabilità del quartiere, una missione importante sarà svolta proprio dalle donne che, grazie al loro ruolo di cura dei figli, stanno diventando un fondamentale anello di raccordo tra la collettività bangladese e il contesto di residenza, giocando un innovativo ruolo di tranfer culturale. Per quanto ancora nettamente minoritarie, le donne rappresentano ormai quasi tre presenze su dieci (28,4 per cento contro il 2,8 per cento del 1991).
“Secondo il loro orizzonte culturale – spiega Maria Paola Nanni – le mogli possono vivere nella cerchia allargata della famiglia bangladese anche all’estero, i loro rapporti con la comunità locale sono invece filtrati. E lo spaesamento è totale, anche perché spesso si tratta di giovani ragazze sposate per procura che si ritrovano a doversi inserire in un contesto tutto nuovo. Ma ormai siamo lontani dallo stereotipo della donna musulmana isolata in casa che si tende spesso a voler comunicare: gestendo i rapporti con la scuola, e tramite l’istruzione dei figli, sono quasi costrette a entrare in contatto con lo stesso sistema di formazione che – per quanto blandamente – anche Roma ha messo in piedi nei confronti dei migranti. Corsi di italiano L2, ovvero come lingua straniera per adulti, che spesso si attivano nelle scuole e che le donne riescono a frequentare. Purché vengano create delle classi “rosa”, per evitare quella commistione che culturalmente dà fastidio alla stessa donna, non solo agli uomini”.
L’obiettivo per Mizan Rahman e per molti bangladesi che vivono nella capitale è completare l’integrazione in modo che Roma e l’Italia non siano considerate semplici mete di passaggio: “Ho viaggiato tanto e considero questo Paese il migliore di tutti. Conosco però tante persone che vogliono andare via, mio cognato pure sta valutando di andare in Inghilterra. Ma io dico, alla tua età, hai trovato una buona posizione in Italia, ma ‘ndo vai co moglie e figli?”.
SHOBIN ISLAM E LA FUGA A LONDRA
Secondo una recente inchiesta del quotidiano britannico Independent oltre seimila bangladesi italiani si sono trasferiti a Londra con le loro famiglie negli ultimi tre anni. L’articolo spiega che si tratta per lo più di operai specializzati che negli anni Novanta avevano trovato lavoro nelle fabbriche del Nord Italia e che, dopo l’inizio della crisi nel 2008, sono rimasti disoccupati. Una tendenza che inizia a farsi sentire anche a Roma.
“L’80 per cento dei connazionali che vivono qui, una volta ottenuta la cittadinanza, vuole andare via. Nell’ultimo mese ho sentito almeno dieci persone pronte a intraprendere il viaggio con mogli e figli al seguito”, spiega Shobin Islam che lavora in un negozio della società Pacific dove i migranti possono inviare denaro nel proprio Paese.
Si lascia l’Italia per tentare l’avventura inglese, secondo Shobin Islam, per il persistere della crisi economica e l’esistenza in Gran Bretagna di maggiori strumenti di sicurezza sociale: “La maggior parte delle persone che parte resta là: le scuole sono migliori, i giovani hanno migliori possibilità e, se riesci a pagare l’affitto, lo Stato ti aiuta e ci sono pure notevoli contributi familiari”. Non solo: a Londra, ricorda, “il sindaco del quartiere di Tower Hamlets, la prima Banglatown d’Europa, è bangladese, mentre il nipote del nostro Premier è membro del Parlamento. Dopotutto lì siamo già alla quarta generazione, qui appena alla seconda”.
Quello britannico, secondo Shobin, più che una possibile alternativa rappresenta un vero miraggio: prospettive per i figli, sicurezza sociale e lavoro. Chi ha la possibilità di andare, non esita a farlo: “Io per il momento resisto. Sono arrivato dopo la regolarizzazione del 1990 e non me la sento di abbandonare l’Italia. Ma non siamo contenti: la maggior parte di noi fa una fatica tremenda, lavoriamo tutto il giorno, spesso anche 15 ore filate, ed è un miracolo se a fine mese riusciamo a portare a casa mille euro. E agli italiani che dicono ‘E che, non vi bastano?’ rispondo che loro non sono moralmente costretti a pensare e a mandare soldi ai parenti rimasti a casa”.
Molti bangladesi, insomma, si sono accorti che l’Italia ha perso capacità economica. Da polo di insediamento privilegiato a Nazione-incubatrice? Pare di sì. Negli ultimi tre anni poi, le quote che spettavano ai bangladesi all’interno del decreto flussi sono sparite.
“Non ho ancora capito il perché – dice ancora Shobin Islam – Di certo non è una questione numerica, dato che i cittadini di India e Pakistan, che a livello nazionale sono più di noi, continuano a essere compresi nelle quote. Bangladesi e cinesi no. Possono venire in Italia solo per turismo o facendo domanda per il ricongiungimento familiare. La destinazione ideale per chi scappa dal Bangladesh, in questo momento, sembra essere il Portogallo. Lì entro un anno si farà una regolarizzazione degli immigrati, lo sappiamo già. Potrebbe essere quella la nuova porta d’ingresso per l’Europa…”.
Questo servizio è un Progetto di fine corso per il biennio 2014-2016 dell’Istituto per la Formazione al giornalismo di Urbino (IFG), pubblicato il 18 marzo 2016.