Rosina Frulla è nata il 30 novembre 1926
A 17 anni ha iniziato a fare la staffetta partigiana
Antifascista e comunista convinta è rimasta una “ragazza del secolo scorso”
Racconta la sua guerra, quando aiutava la Resistenza tra Pesaro e Gallo
Nel 1944 lavoravo alla mensa della scuola a Pesaro e ogni quindici giorni dovevo andare a prendere la paga in un ufficio di via Passeri dove, appena si entrava, bisognava fare il saluto al duce. Un giorno entro nell’ufficio e trovo un comandante fascista con la faccia da maialone che mi dice: “Saluta il duce!” e io zitta. Allora lui ha ripetuto “Saluta il duce!” e io “Dov’è?”. “Lì” mi ha risposto lui, indicandomi una foto incorniciata di Mussolini appesa sopra la sua testa. Allora io ho preso la cornice e gliel’ho rotta in testa.
Lui si è arrabbiato molto e la segretaria si stava quasi facendo la pipì addosso dal ridere ma non mi hanno fatto nulla perché ero piccola: avevo 17 anni ma ne dimostravo meno.
E’ stato proprio il fatto di sembrare molto più giovane della mia età che mi ha salvata. I fascisti non pensavano che una ragazzina così piccola potesse fare la staffetta partigiana e quando mi vedevano fare su e giù con la mia bici sgangherata senza copertoni, mi lasciavano sempre passare.
Solo una volta quando stavo portando una pistola Beretta ai partigiani della brigata Bruno Lugli, sono stata fermata a un posto di blocco. La pistola era chiusa nel portapacchi della bici. Era la prima volta che ne trasportavo una e nemmeno sapevo che si chiamasse “beretta”. All’inizio quando mi hanno detto cosa dovevo trasportare avevo capito “berretto”. Comunque l’ho ficcata nel mio portapacchi, come facevo con le lettere e gli ordini, e l’ho coperta con gli attrezzi per riparare le biciclette che usava mio fratello che era meccanico. I fascisti, quando mi hanno fermata, per farmi un dispetto, hanno buttato la bici in un fosso e sono uscite tutte le cose dal portapacchi ma io ho fatto finta di niente. Ho raccolto tutto e me ne sono andata.
Ho sempre avuto una grande faccia tosta io. Ricordo che mi ero fatta un bastone con inciso sopra “viva il comunismo, viva i partigiani”. Lo portavo sempre con me e ne ero proprio orgogliosa. Un giorno però un fascista l’ha visto. Ricordo che si è avvicinato con fare minaccioso, me l’ha preso dalle mani e, senza dire una parola, l’ha spezzato. Poi mi ha chiesto: “ma ti rendi conto cosa c’è scritto su questo bastone?”. E io: “No, sono analfabeta!”. Poi sono tornata a casa e me ne sono fatta un altro uguale.
La mia lotta partigiana è cominciata portando il pane e la minestra che rimaneva dalla mensa ai soldati prigionieri dei tedeschi ad Alberghetti. Me li aveva fatti conoscere Luigi Fabi, il mio vicino di casa. In famiglia mia non si parlava né di fascismo né di comunismo: la lotta partigiana me l’ha insegnata Fabi con il suo esempio. Ogni sera usciva di casa, faceva un rutto enorme e poi urlava – perchè lo sentisse tutto il quartiere - “Questo è per Mussolini, che gli venga un cancro!”.
Quella si che era una famiglia di antifascisti “quadrati”. Ci hanno insegnato tutto a me e a mio fratello. Noi eravamo piccoli ma non ci tiravamo mai indietro. Non avevamo paura perché stavamo lottando per la libertà e quando lotti per la libertà non puoi avere paura.
Facevamo la staffetta, portavamo in giro le copie de “l’Unità” e qualsiasi altra cosa servisse ai compagni. Le riunioni per decidere come e quando portare armi e messaggi ai partigiani le facevamo in chiesa. Fingevamo di pregare e intanto discutevamo. A casa invece non parlavamo mai di queste cose perché non volevamo che nostra mamma sapesse. Non le raccontavamo quello che facevamo e lei continuava a ripetere: “Sta fiola an è mei a chesa”.
Anche quando siamo stati sfollati al Gallo io ero sempre in giro per i partigiani. Una volta sono andata da Pesaro a Gallo con la bici attaccata al retro di un camion. Sono arrivata a casa così sporca che nessuno mi ha riconosciuta e mio fratello, quando mi ha vista, ha escalmato: “Rosi, sei più nera dei fascisti!”.
Ma io con i fascisti non c’ho avuto mai a che fare. Mai andata al sabato fascista. Mai andata ai loro raduni. Anzi si: una volta sono andata a una manifestazione a Pesaro dove parlava un prete fascista. Ricordo che mi sono fatta largo tra la folla e, essendo piccolina, sono riuscita a intrufolarmi nelle prime file. Sono stata buona per un po’ e poi, quando nessuno se l’aspettava, ho tirato il pepe in faccia ai fascisti e sono scappata via.
E’ stata dura. Tanto. Non lo nego; però se tornassi indietro rifarei tutto, dall’inizio alla fine. Io volevo lottare. Dovevo lottare perché ero e sono un’antifascita. Ed è per questo che ogni primo maggio continuo a mettere una bandiera rossa in quell’angolo lì del giardino.
Prima la issavo con mio marito Ferruccio che è stato anche lui un partigiano. Ci siamo sposati nel 1952 in Comune a Pesaro. Una volta non era come adesso che ti potevi sposare sia in chiesa che in comune e poco cambiava. Allora era uno scandalo ma noi abbiamo deciso così perché il prete mi aveva ricattata: “se non rinunci alla tessera del partito comunista non ti sposi in chiesa”. E io ho detto “senza la tessera mai!”. Così con Ferruccio abbiamo fatto una bella cerimonia in Comune. C’era il tappeto rosso, i fiori e tutto. E poi finita la celebrazione siamo saliti sulle nostre bici e siamo andati a fare festa grande con i parenti.
Ora che Ferruccio è morto e io non ci vedo più tanto bene, la bandiera la metto con i miei nipoti. Forse dovrei smetterla. Ogni anno mi dico “questo è l’ultimo”. Che senso ha oggi, con questa politica qui, quella bandiera sventolante? Che senso ha vestirsi sempre di rosso?
Io so solo che il rosso è il colore della mia passione, della mia lotta. Il colore della mia vita. E che anche quest’anno la mia bandiera rossa sarà lì, nell’angolo sinistro del mio giardino, perché tutta la via sappia che qui vive un’antifascista vera.