“Mia nonna non ha avuto nemmeno il tempo di capire che cosa stava succedendo. Ha sentito degli spari, il verso dei cani, le urla in tedesco. Si è affacciata alla porta e le hanno sparato”. Tina Cecchini Corbucci il 1 novembre 1943 aveva 17 anni. La strage di Ca’ Mazzasette la vede con gli occhi di allora, di una ragazza affacciata alla finestra di casa, la stessa casa dove vive ancora oggi.
I poliziotti nazisti erano venuti da Rimini a cercare Erivo Ferri, il calzolaio del paese, comunista e, secondo un informatore dei fascisti, ben armato. Ma quello che doveva essere un semplice arresto si subito trasformato in uno scontro a fuoco che lasciò a terra tre civili e un soldato tedesco. “Ho visto il camion dei tedeschi salire dalla strada provinciale – racconta Tina – la sparatoria è cominciata quasi subito. All’altezza delle Casacce, alle porte del paese, un ragazzo è uscito di casa correndo, si era spaventato vedendo arrivare il camion carico di uomini armati. Gli hanno sparato alla schiena mentre fuggiva in direzione del fiume, al margine del bosco”. Il ragazzo si chiamava Pierino Bernardi, 19 anni. Il suo corpo sarà ritrovato una settimana dopo.
Arrivati nel centro del paese, i tedeschi iniziano a sparare in aria: “Non circondano subito le case, prima si schierano di fronte, poi entrano. Intanto sparano e sembra che sul tetto cada la grandine”. Una donna si affaccia alla porta di casa: è Adele Cecchini, la nonna di Tina. I soldati la freddano con una sventagliata di mitraglietta e la stessa sorte tocca ad Assunta Guarandelli, 30 anni, madre di due bambini e in attesa del terzo figlio. “Assunta si era affacciata dal balcone per chiamare i figli dentro casa dopo aver sentito i primi spari – ripercorre con la memoria Tina Cecchini – i tedeschi l’hanno vista sulle scale e l’hanno uccisa. Hanno sparato ai civili senza un motivo, indiscriminatamente”.
Ma cosa accade davvero a Ca’ Mazzasette? Perché quello che doveva essere un semplice arresto è diventato un triplice omicidio, una strage? La storiografia ufficiale dice che il primo reparto tedesco, dopo alcune raffiche a scopo intimidatorio, tenta di entrare nell’abitazione di Ferri, ma il calzolaio si difende sparando e lanciando granate.
“Sentivamo Erivo sparare. Anche suo cugino, Mario Ferri, prese il fucile appena vide che i soldati volevano arrestare Erivo. Mario sparò ai tedeschi mentre stavano davanti al portone della casa del cugino, e poi un tedesco è morto, credo ucciso da lui”. A quel punto i tedeschi chiamano i rinforzi e altri due camion carichi di soldati entrano in paese, ingaggiando una battaglia a colpi di mitragliatrice e bombe da mortaio.
“Ci hanno fatto uscire tutti – riprende Tina – ci hanno circondato con le mitragliatrici e ci hanno detto che avrebbero bruciato le case. Mia madre implorava che ci lasciassero vivere e che mi lasciassero finire gli studi. Ci hanno portato alle Casacce, dove era stato ucciso il ragazzo, e ci hanno tenuto lì mentre sentivamo che in paese si continuava a sparare, ma non riuscivamo a capire cosa stava accadendo. Dopo hanno portato via tutti gli uomini, 29 persone, compreso mio padre (Zilio Cecchini, arrestato perché era rimasto in casa durante il rastrellamento, ndr). Li hanno portati a Rimini, ma ne liberarono 25 nelle settimane successive. Mio padre era uno degli ultimi quattro e i tedeschi lo obbligavano a togliere le bombe inesplose dalla ferrovia. Un giorno, durante un bombardamento alleato, un ordigno è caduto è caduto sul carcere e mio padre e i suoi compagni di prigionia sono riusciti a fuggire ed è tornato a casa. Quando è tornato ha detto: ‘È giusto essere tornati oggi, è la festa degli innocenti”. Era il 28 dicembre 1943, sei mesi dopo sono arrivati gli inglesi”.
Erivo Ferri, invece, riesce a non farsi catturare. Per qualche giorno rimane nascosto in alcune abitazioni nei dintorni di Ca’ Mazzasette, poi viene trasferito a Cantiano, da dove guiderà il distaccamento d’assalto “Picelli”, una delle formazioni partigiane impegnate nella lotta contro i nazifascisti.