Arrivavano da tutte le parti d’Italia per rifugiarsi qui. Urbania sembrava un posto tranquillo, risparmiato dalla guerra. Le bombe erano lontane, gli aerei, diventati quasi una presenza “amica”, sorvolavano la città senza destare preoccupazioni. Nessuno aveva paura. Fino al 23 gennaio del 1944. Alle 12.42, mentre i fedeli uscivano dalla messa, gli americani iniziarono a bombardare la piazza. Su una popolazione di 6000 abitanti, più di 250 persone morirono, spazzate via dallo scoppio o sepolte sotto cumuli di macerie. I feriti furono 515. Anche la città subì gravissimi danni: 284 abitazioni vennero distrutte, oltre 1500 danneggiate. “Non eravamo preparati. Nessuno se lo aspettava – racconta Angela Bifaro, che all’epoca aveva 7 anni – ero scappata da Napoli insieme alla mia famiglia per venire qui. Sapevamo che a Urbania tutto era tranquillo. Cercavamo un rifugio ma trovammo la morte. Persi entrambi i genitori nel bombardamento, morirono anche i miei nonni e i miei due fratelli, di 3 e 10 anni. Rimasi da sola”.
Nessun presidio militare, nessuno snodo ferroviario importante, nessuna traccia dei tedeschi in città: ancora oggi il bombardamento di Urbania sembra a molti un mistero. E i sopravvissuti, colti alla sprovvista dalle bombe, sono ancora alla ricerca di una spiegazione. “Si dice che la città sia stata bombardata per sbaglio e che il vero obiettivo fosse Poggibonsi, in Toscana – afferma Don Piero, il parroco di Urbania, che conosce bene le vicende anche se all’epoca non era ancora nato – i rapporti ufficiali della missione americana non menzionano Urbania da nessuna parte mentre segnalano la presenza degli aerei su Poggibonsi nello stesso giorno e alla stessa ora in cui bombardarono la nostra città”. Ma c’è anche chi parla di un errore “umano”: “Accanto alla chiesa c’era allora un circo, una piccola giostrina azionata da un asino – continua Don Piero – probabilmente scambiarono il tendone per l’accampamento dei tedeschi”.
FOTOCONFRONTO La città bombardata e la città ricostruita
Mentre la paura di un nuovo attacco agitava ancora i cuori, gli abitanti di Urbania iniziarono la ricostruzione. Gli edifici danneggiati del centro storico vennero ricostruiti seguendo l’andamento dei vecchi palazzi. E nella chiesa dello Spirito Santo, colpita in pieno dal bombardamento e quasi completamente rasa al suolo, fu eretto nel 1949 un Tempio Votivo alla memoria delle vittime. Una porta in bronzo, una croce con le bombe ai piedi e un mosaico di 65 metri quadri ricordano la tragedia della guerra. E lo fanno anche attraverso i racconti e le fotografie di quel giorno esposte sulle pareti. Proprio in occasione dell’inaugurazione della porta, nel 2006, il Sindaco Luca Bellocchi e il parroco Don Piero scrissero una lettera per ribadire l’importanza del ricordo: “È necessario ravvivare la memoria di un avvenimento che, con il passare del tempo e delle generazioni, rischia di affievolirsi per poi disperdersi tra le tante pagine della storia della nostra città. Ma che non deve accadere mai più. Ricordare è fondamentale”.
Il bacio d’addio. “Avevo 26 anni all’epoca. Quella mattina – racconta Pietro Paci – ero uscito perché ero inquieto, non mi sentivo al sicuro. A casa c’erano cinque persone, tra cui mia mamma, malata a letto. Mi ricordo che scesi le scale e incontrai la mia nipotina di nove anni, che stava facendo i compiti. Mi disse: “Zio, mi dai un bacio?”. Io glielo diedi e mi incamminai nel vialetto. Feci in tempo a percorrere pochi metri prima di sentire lo scoppio. Istintivamente mi misi a correre verso casa ma prima di arrivare incontrai una persona che conoscevo che mi disse: ‘Pietro, la tua casa non esiste più’. Persi tutti e cinque i miei parenti ma i loro corpi non si ritrovarono mai, tranne quello di mia madre, sprofondata nella terra insieme al letto”
Amarsi fino alla fine. “In città si è sempre raccontata la storia tragica di due fidanzatini – racconta Don Piero – quella mattina lei era andata a messa, lui l’aveva raggiunta per salutarla. Si parlavano separati dal vetro della porta della Chiesa. Ma ad un certo punto arrivarono le bombe. Lei si salvò perché era all’interno. Di lui si recuperò solo qualche povero resto nella zona della piazza. Il suo corpo era volato oltre i palazzi e si era quasi disintegrato a causa dello spostamento d’aria. Il riconoscimento, se così si può dire, fu fatto con un pezzo della cintura che indossava”
Il posto giusto. “Arrivarono gli aerei, ebbi paura e mi nascosi in una piccola cappella – racconta il diacono Giuseppe Mangani – ma non mi sentivo al sicuro così mi spostai in un altro rifugio poco lontano. E così, per caso, mi salvai perché poco dopo venne bombardato proprio il posto in cui mi ero nascosto all’inizio. Mi ricorderò sempre la montagna di cose che volava e le grida della gente. Ma io i morti non li ho visti. Per tantissime notti dopo il bombardamento, però, continuai ad avere gli incubi. Non riuscivo a togliermelo dalla mente”
I segni del bombardamento. “Quando arrivarono le bombe, ero con mamma e papà – racconta Itala Spugnin, moglie di Giuseppe Mangani – mi ricordo che mio padre ci prese e ci mise sotto un arco, che fortunatamente non crollò. Ma non dimenticherò mai l’immagine di mio padre insanguinato e della sottoveste stracciata di mia madre, rimasta quasi completamente nuda. Ho ancora una scheggia in testa a ricordarmi quel giorno maledetto”
23 Gennaio 1944. Il Fumetto della scuola del Libro di Urbino
Ilaria Betti
Antonella Ferrara
Stefano Rizzuti