di Diana Orefice
“Fu la volta che io giunsi più vicino al nemico”, scrive Winston Churchill, ricordando quel 27 agosto 1944, quando si trovava sopra Fano, a Montemaggiore al Metauro. Il primo ministro del Regno Unito era stato accompagnato in cima alle colline marchigiane dopo un incontro con il generale dell’esercito polacco Anders. Ammirava il panorama e con il binocolo osservava le nuvole di polvere sollevate dall’artiglieria nei pressi della linea del fronte. Gli alleati avevano iniziato da pochi giorni l’attacco alla linea Gotica.
La seconda guerra mondiale, nel pesarese, è scoppiata tardi. Dal giugno del 1940 fino al settembre del 1943 il fronte era lontano e le armi erano solo un ricordo della Grande guerra. Eppure nel giro di un anno, il 1944, Pesaro e tutto il territorio della provincia si sono ritrovati ad essere il punto nevralgico prima della strategia tedesca e poi della liberazione dell’intero Paese.
Pesaro, punto di arrivo della linea Gotica
L’esercito tedesco occupò la città, senza trovare resistenza, il 13 settembre del 1943. In quei giorni i tedeschi scelsero Pesaro come baluardo orientale di una linea difensiva che avrebbe tagliato in due l’Italia. Si trattava della la linea Gotica. Niente a che vedere con la fortificata Ligne Maginot, in Francia. Per rallentare gli alleati in Italia, l’esercito tedesco cercava di sfruttare soprattutto il terreno montuoso e gli ostacoli naturali offerti dal territorio appenninico, come dirupi, fiumi e torrenti. Ma nel tratto finale ad est, verso la costa, una striscia di pianura rimaneva scoperta. Lì, sulla sponda sinistra del fiume Foglia, la linea Gotica fu costruita come una vera e propria fascia fortificata.
La linea partiva da Marina di Massa, sul Mar Tirreno, fra Viareggio e Pisa. Si dirigeva a sud delle Alpi Apuane, proseguiva sui passi appenninici a nord, poi verso il Monte Fumaiolo, arrivava fino a Urbino e, seguendo il fiume Foglia, raggiungeva Pesaro. La costruzione dei baluardi era sotto la supervisione degli ingegneri tedeschi dell’organizzazione Todt. Quindicimila italiani furono costretti a collaborare alla realizzazione dell’opera. Tra questi, a Montecchio, c’era Umberto Palmetti: con i compagni cercava di rallentare i lavori, di organizzare le assenze per impedire il completamento della linea.
Dopo il 28 dicembre, con l’inizio dei primi bombardamenti anglo-americani su Pesaro, iniziò lo sfollamento di massa degli abitanti verso le campagne. Il 3 gennaio 1944 sui muri della città venne affisso un manifesto che avvisava dello “sgombero della popolazione della fascia costiera per una profondità di 10 chilometri nel termine di 48 ore”. Gli uffici dell’amministrazione provinciale vennero dislocati a Fermignano, Urbania, Sant’Angelo in Vado, Pergola, Saltara e soprattutto Urbino, che divenne il crocevia di tutta la provincia.
La liberazione di Pesaro avvenne otto mesi dopo. I primi ad entrare nella città e nei comuni vicini, tra il 30 agosto e il 2 settembre, furono i soldati del II Corpo polacco, con l’aiuto dei soldati canadesi e della brigata Maiella. Ad aspettare la liberazione della città c’era anche Odoardo Barulli. Sfollato in campagna nell’inverno del ’44, si nascondeva con la famiglia in una grotta a Ripe di Talacchio. Per cinque giorni, con altre 30 persone, rimase chiuso nel suo rifugio, sopravvivendo con pane e acqua.
Lo spettacolo che si presentò ai suoi occhi, al rientro a Pesaro, fu quello di una città sventrata. Secondo i dati del Comune, dopo i bombardamenti furono più di 8.000 i vani completamente distrutti o gravemente danneggiati e oltre 9.000 gli abitanti rimasti senza casa. Nel 1945 il bilancio dei danni bellici nel pesarese fu di 30 miliardi di lire: la cifra più alta della regione.
L’esercito degli alleati, con la brigata Maiella, proseguì nella liberazione del paese, raggiungendo Bologna il 21 aprile 1945. Tra le fila del nucleo abruzzese c’erano anche Gilberto Malvestuto, sottufficiale dei mitraglieri, e Raffaele Di Pietro, che si arruolò nella brigata a 18 anni contro il volere dei suoi genitori. Quella della Maiella è l’unica brigata che è stata premiata con una medaglia d’oro al valore militare. Ma i protagonisti della Resistenza sono molti di più.
Da Erivo Ferri alla V Brigata Garibaldi di Pesaro
Nel novembre del 1943, mentre iniziavano i lavori di costruzione della linea Gotica, l’esercito fascista cercava nuove leve a Pesaro. Sui muri di tutte le città della provincia vennero affissi i bandi per l’arruolamento nell’esercito della Repubblica Sociale Italiana. Ma alla federazione fascista si presentò solo il 10 per cento del totale dei giovani idonei. Di questi, la maggior parte abbandonava le caserme dopo aver ricevuto il completo militare.
Negli stessi giorni, la resistenza armata provinciale entrava in una nuova fase. Un reparto di polizia tedesca aveva circondato Ca’ Mazzasette, una frazione di Urbino, per arrestare il comunista Erivo Ferri, punto di riferimento della lotta antifascista della valle del Foglia. Tina Cecchini Corbucci, che all’epoca aveva 17 anni, racconta che Erivo riuscì a scappare dopo una violenta sparatoria. Persero la vita un soldato tedesco e tre civili, tra cui un giovane di 19 anni, una ragazza incinta e un’anziana.
Una volta a Cantiano, Erivo costituì i primi nuclei della lotta partigiana nelle Marche: i distaccamenti Picelli e Gramsci. Nel giro di qualche mese i ribelli marchigiani si moltiplicarono, sempre più giovani partirono per i boschi appenninici e i due nuclei diedero vita alla V Brigata Garibaldi di Pesaro, una delle prime d’Italia. Le brigate “d’assalto” Garibaldi erano prevalentemente legate al Partito Comunista e al Partito d’Azione. Nelle Marche si concentravano nella fascia interna, quella più montuosa. Sulla costa, invece, i Gruppi di azione patriottica compivano operazioni di sabotaggio e di recupero di armi e materiale utile per le bande armate.
Nel pesarese, sia nella fascia interna che in quella costiera, la Resistenza ebbe soprattutto il ruolo di impedire o rallentare i lavori di costruzione della linea Gotica. Ciro Renganeschi, di Pesaro, si era infiltrato nella manovalanza. Nel 1944 ha rischiato la vita per portare i piani di costruzione tedeschi ai generali degli eserciti alleati.
Ma tra le fila della Resistenza c’erano anche tante donne. Tra di loro, Rosina Frulla. Aveva 17 anni ed era una staffetta partigiana. Racconta che usciva di casa con il pepe in tasca per tirarlo sul viso dei fascisti durante le adunate. Non aveva paura, perché lottava per la libertà. Anche Luciana Manca cercava di aiutare i partigiani: a 17 anni lavorava al comune di Falconara Marittima e rubava le tessere annonarie per poterle dare agli antifascisti e ai giovani renitenti.
Le tragedie di Urbania e Montecchio
Uno dei luoghi più caldi del ’44 pesarese era Urbania. Il 23 gennaio del 1944 gli aerei americani rasero al suolo il centro storico della città. Erano le 12,45 di domenica. Gran parte della popolazione era andata a messa e stava uscendo dalle parrocchie in quel momento. Le vittime furono 250, intere famiglie morirono sotto le macerie, furono centinaia gli orfani e gli sfollati. Angela Bifaro, napoletana, si era rifugiata a Urbania per fuggire alle bombe nella sua zona, ma quel giorno perse tutta la famiglia. Pietro Paci, che oggi ha 97 anni, si salvò per caso: abitava nel centro storico e al momento del lancio delle bombe si trovava fuori casa. Ha ricostruito la sua abitazione sul punto esatto dove era una volta.
Don Sergio Campana ricorda un altro evento tragico nel comune di Urbania. Il 6 luglio, 14 persone vennero uccise per rappresaglia dalla Wehrmacht a San Lorenzo in Torre, una frazione a sud ovest della città. In tutta la zona di Urbania infatti, fin da gennaio, i partigiani e i membri del Comitato di liberazione nazionale sabotavano le operazioni tedesche e impedivano il reclutamento nell’esercito fascista. La popolazione stessa si opponeva alle autorità fornendo armi, viveri, rifugio e protezione a partigiani, sfollati, prigionieri fuggiti dalle forze tedesche ed ebrei internati.
Altro punto nevralgico della lotta era Montecchio, dove passava la linea Gotica. I tedeschi avevano trasportato nella cittadina il deposito di mine di Pesaro, con tutto il materiale necessario per la costruzione dei baluardi di difesa. Il 21 gennaio, alle 21.30, la polveriera esplose, provocando 30 morti e oltre un centinaio di feriti. Gino Ricci all’epoca aveva 22 anni: racconta che la potenza dell’esplosione lo sollevò dal suolo. A far scoppiare le oltre 8000 mine furono un gruppo di partigiani, che non sapevano che gli esplosivi fossero stati ammassati in tale quantità.
Tutto il territorio provinciale aveva una forte tradizione antifascista. I civili mettevano in discussione le autorità assaltando i silos di grano, lasciando fuggire i confinati e organizzando propaganda antiregime. I soldati tedeschi e le autorità fasciste rispondevano con minacce, arresti o rastrellamenti.
Uno dei protagonisti del coraggio marchigiano, oltre quello della Resistenza, fu Pasquale Rotondi. Sua figlia Giovanna racconta di come suo padre, sovrintendente ai beni culturali di Urbino, nascondeva centinaia di opere d’arte provenienti da tutta Italia per proteggerle dai bombardamenti. Tra la fortezza di Francesco di Giorgio Martini, a Sassocorvaro, e il Palazzo dei Principi a Carpegna, nelle Marche erano conservati oltre diecimila capolavori. Tra di essi opere di Caravaggio, Tiziano, Piero della Francesca, Rubens, Bellini e Giorgione.