Montecchio. È una sera di fine gennaio del 1944. Gelida. Le famiglie si siedono a tavola. Poca roba, la guerra deve ancora finire. Al circolo di Piazza della Repubblica i soldati tedeschi e i montecchiesi bevono insieme qualche bicchiere di vino. Gino Ricci, 22 anni, è un soldato in licenza premio, da poco tornato dal fronte jugoslavo. Quella sera è insieme a due amici e decidono di cenare in casa. Vedono il paese da due chilometri di distanza e i piedi sui pedali delle loro biciclette iniziano a spingere più forte.
A un certo punto sentono le esplosioni delle capsule delle mine del deposito in piazza della Repubblica. Poi “boom”, scoppiano tutte insieme. Poi silenzio, poi grida. Una nube di fumo immensa inghiotte il cielo di Montecchio.
Il deposito di mine che i tedeschi avevano spostato da Pesaro a Montecchio è esploso. Sono stati i partigiani. Lo avevano promesso. E avevano anche detto: “Vi avviseremo”. “I tedeschi lo avevano messo lì perché tanto c’era la gente e non lo avrebbero fatto esplodere”, spiega Ricci a 70 anni di distanza. Ma bisognava distruggerlo lo stesso o l’avanzata degli inglesi sarebbe stata molto più lenta. Quelle mine avrebbero fatto saltare i cingoli dei loro carri armati. “La guerra è così”, sentenzia Ricci.
Placido Gulino, il prigioniero venuto dal sud, il piantone del deposito, corre da una parte all’altra del paese. “Via, via, andate via”, grida. Qualcuno lo ascolta e scappa a gambe levate. Altri non gli danno retta: “È un mese che ci dite che scoppia tutto, non vi crediamo più”. Gulino muore insieme a trenta montecchiesi; quelli che lo hanno ascoltato, tanti, si salvano. Il fratello e la sorella di Gino Ricci scappano da casa in mutande. Poi Gino scava e scava: i suoi genitori sono sotto le macerie. Li trova abbracciati nel letto.
(Le immagini storiche sono state gentilmente messe a disposizione dall’archivio della Biblioteca Bobbato di Pesaro e da Cristina Ortolani)
Gino Ricci, di quella notte ricorda “un raggio di fuoco alto due o tre chilometri”, i vetri rotti di tutti i paesi del circondario, le grida della gente, le case rase al suolo e una quercia alta quattro metri troncata nel mezzo: “Neanche quando hanno bombardato Fiume ho avuto tanta paura”.
Dopo lo scoppio, dopo quel 21 gennaio 1944, Montecchio non fu più la stessa. O forse sarebbe il caso di dire, Montecchio fu per la prima volta. Sì, perché l’evento storico dell’esplosione del deposito di mine divenne elemento fondante della memoria collettiva dei sopravvissuti.
“Ho raccolto molte testimonianze – spiega Cristina Ortolani, autrice di “Un paese lungo la strada” – volevo ricostruire la storia di questo paese tra Pesaro e Urbino, prima e dopo lo scoppio. Eppure ogni volta che chiedevo cosa ci fosse prima del 1944, tutti mi rispondevano che non c’era niente. Come se l’esplosione avesse cancellato tutto, spazzato via la memoria di quello che era stato. Non rappresentava la fine ma l’inizio di una civiltà”.
Le parole per descrivere ciò che avvenne si ripetono uguali sulle bocche di chi aveva sentito come una mazzata l’esplosione della dinamite e visto la nube di fumo levarsi alta su piazza della Repubblica. Di chi aveva visto i parenti morire, incastrati sotto le macerie, di chi aveva cercato di rientrare in casa, scavalcando macerie, polvere, brandelli di quel che restava di armadi, letti, seggiole o che aveva tirato su baracche di fortuna con quel poco che stavano lasciando i primi soldati alleati che già si aggiravano per i campi.
La memoria si è cristallizzata, ha unito la cittadinanza, facendo scomparire le differenze: dopo quel momento catartico non ci fu più la camicia nera che più nera non si può, né il partigiano, non si distinse più tra buoni e cattivi. Montecchio non era più il paese con l’osteria in cui si fermavano i viandanti che viaggiavano verso Pesaro, né la cittadina lambita dal Foglia, la cui portata spesso trascinava via il ponte che la collegava con Urbino. Era ormai la città dello scoppio, della fiamma di fuoco che aveva fatto alzare lo sguardo al cielo degli abitanti dei paesi vicini: Sant’Angelo in Lizzola, Monte Gridolfo, Ripe.
E da allora tale è rimasta. Nel ricordo degli anziani e nei loro racconti ai giovani montecchiesi che ogni anno, il 21 gennaio, si ritrovano a commemorare i caduti. Di quello scoppio rimane, ora, un monumento: marmo bianco al centro della piazza, una corona d’alloro con il tricolore, due lastre di bronzo con l’elenco dei morti.
La città tutto intorno è risorta spinta dall’urgenza: a gennaio fa freddo e bisognava procurarsi un tetto. Ogni montecchiese, soccorsi i feriti, seppelliti i morti, ha ricostruito la propria abitazione sulle spoglie di quella venuta giù. Così, una pietra sull’altra non erano quelli giorni in cui restava tempo per pensare. C’era solo la necessità di ritornare alla vita di sempre, ripartendo da se stessi, uniti attorno al ricordo confuso di un microcosmo spazzato via in una sera d’inverno.
Giuseppina Avola
Mario Marcis