Fucili a ripetizione Mauser, pistole e rivoltelle inglesi accompagnate da 31 chili di esplosivo. Era un vero e proprio arsenale quello che Vilfredo Caimmi, ex partigiano di Ancona e medaglia d’argento al valore militare, nascondeva nella sua cantina. Un arsenale scoperto nel 1990 dopo una segnalazione anonima ai carabinieri: tanto è bastato perché il tesoro di Caimmi, fatto di armi non solo impugnate dai suoi compagni ma anche da partigiani di Macerata e Urbino, tornasse alla luce. Fu immediatamente sospeso dal Partito comunista (Pci), nonostante avesse cercato di giustificarsi: “Tenevo tutto per affetto”.
Dieci anni dopo, su iniziativa del ministro della giustizia Olivero Diliberto, le armi sono state dissequestrate per il loro valore storico e consegnate al comune di Falconara Marittima. Dal 2002 sono conservate nel museo della Resistenza e rappresentano, secondo quanto afferma Angela Ortolani dell’ufficio cultura del Comune, l’unico esempio in Italia di un arsenale appartenuto a una brigata partigiana. Il museo ospita anche testimonianze di abitanti della zona: dalle uniformi fornite dagli alleati a un timbro rubato ai tedeschi per falsificare documenti, dalle carte da gioco americane a un telegrafo da campo. All’epoca era molto difficile comunicare con gli alleati ed era un’operazione delicatissima. Gli scambi di informazioni potevano avvenire solo tramite codici numerici, che venivano affidati a una sola persona.
Tanti ricordi che fanno di questo spazio un piccolo gioiello delle Marche. Tesori che però rimangono anche troppo nascosti. Sul sito internet del Comune di Falconara è riportata la voce ‘Museo della Resistenza’, ma cliccando si apre una pagina vuota. Cercando invece il numero di telefono e l’indirizzo sul web, si trovano dati sbagliati. Arrivati sul posto tutte le indicazioni rimandano al Castello, sede dell’esposizione per soli due anni. È dal 2004 infatti che si è deciso di spostare il museo nell’edificio storico del comune per abbattere le barriere architettoniche e consentire a tutti di visitarlo.
Tra i corridoi del museo, esposte in una vetrina, risaltano due mitragliette Sten, identiche per un occhio inesperto ma profondamente diverse se usate in battaglia. Una, la più accurata nella fabbricazione e munita di maniglia, permetteva di far partire un colpo alla volta; l’altra, molto più rudimentale, se azionata continuava a sparare finché non finivano i proiettili all’interno del caricatore. Molti partigiani sono rimasti uccisi da fuoco amico proprio a causa di questo difetto.
A maneggiare le armi, però, non erano solo gli uomini. Nel museo è riservato uno spazio particolare alle pistole che utilizzavano le donne. Piccole e leggere, venivano spesso nascoste sotto le gonne o consegnate, quando ce n’era bisogno, ai partigiani. Ma in quali altri modi era possibile procurarsi pistole e fucili? C’era chi recuperava quelli scampati alla Prima guerra mondiale, nascosti dai soldati in fuga dopo l’8 settembre o chi tentava di strapparli al nemico in combattimento. La pratica più diffusa però era quella di raccoglierli dai sacchi gettati dagli elicotteri degli alleati.
Quando farsi lanciare le armi all’aeroporto era diventato troppo rischioso, venne individuata come valida alternativa la Valdiola, una valle dell’entroterra tolentinese perfetta per l’arrivo dei sacchi grazie alla sua conformazione a ‘V’. Capitano della brigata partigiana di Ancona era Goffredo Baldelli, punto di riferimento per la resistenza marchigiana. Di area socialista e vicino alla posizione di Pertini, era l’unico ad avere i codici e la radio per comunicare con gli alleati.
Baldelli però ha avuto un destino sfortunato. Un giorno rimproverò un partigiano polacco che aveva insultato una staffetta. I due cominciarono a picchiarsi finché il polacco sparò a Baldelli, uccidendolo. Voci raccontano che i compagni gli abbiano scucito gli orli della giacca e dei pantaloni per cercare i codici. I codici non sono mai stati ritrovati.
Giovanna Olita
Valeria Strambi