Nel settembre del 1943 Umberto Palmetti aveva 20 anni
Abitava a San Giovanni in Marignano
Fu costretto dai nazifascisti a lavorare alla linea Gotica
Sono passati settant’anni e ora racconta quei mesi
Nella nostra caserma, quella di Cesena dove stavamo noi militari dell’Aeronautica, l’allarme l’hanno fatto suonare verso la mezzanotte del 9 settembre. Poche ore prima erano arrivati i tedeschi e tutti avevamo pensato “questa volta è la nostra, questa volta ci prendono, ci caricano su un treno e ci spediscono in un campo di concentramento”. Invece no, i tedeschi hanno fatto un gran casino con i nostri ufficiali e se ne sono andati. Ma non eravamo più sicuri e, dopo aver fatto scattare l’allarme, gli ufficiali ci hanno detto di andare via, di scappare.
Erano i giorni dei primi rastrellamenti di soldati italiani. Chi non faceva in tempo a togliersi la divisa, ad andare al sud o a nascondersi in montagna, veniva disarmato e fatto salire su un treno per la Germania. Alla fine furono 600.000 i soldati italiani portati nei campi di concentramento. Io sono stato fortunato. Con i miei compagni, la notte del 9 settembre, mi sono rifugiato nel castello di Montiano. Da lì non sapevamo dove andare, c’erano i tedeschi in giro. Abbiamo chiesto aiuto alle ragazze che incontravamo nei vari paesini: ci dicevano se nella zona avremmo trovato o meno i nazisti. Il primo pensiero era lo stesso per tutti noi: salvarsi, tornare a casa. Abbiamo attraversato i campi per due giorni e percorso oltre cento chilometri. Il tempo era buono, la notte abbiamo dormito sotto i meleti carichi di frutta e la luce bianca della luna piena. Abbiamo mangiato le mele e l’uva che trovavamo in abbondanza e, dopo 48 ore, sono finalmente arrivato a casa.
In quei giorni iniziavano i lavori della linea Gotica: i tedeschi avevano bisogno di manodopera per costruire le fortificazioni difensive da Massa Carrara a Pesaro. E i militari come me, secondo l’ordine che aveva dato Mussolini da Salò, non dovevano più andare in Germania. Servivamo qui, per scavare la linea Gotica.
Appena rientrato a casa, a San Giovanni in Marignano, ero tornato a fare il contadino. Lavoravo per l’uomo più ricco della zona, un agrario che possedeva 50 poderi: si chiamava Battista Cerri ed era un fascista, aveva persino la stella al merito da cavaliere del lavoro. Sua moglie era la figlia di Tirotti, il proprietario di una ditta che lavorava per la Todt (l’impresa di costruzioni tedesca impegnata nella realizzazione della linea Gotica). Presto sarebbe toccato anche a me e Cerri mi consigliò di iniziare a lavorare per la Todt a Montecchio, così che – con la scusa che dovevo fare il contadino nei suoi poderi – mi avrebbe dato spesso il permesso per assentarmi.
Sono stato tra i tedeschi ma non ho fatto quasi nulla. Assieme agli altri operai dovevo scavare la terra con le vanghe e i badili per creare le fosse anticarro. Le dovevamo fare a zigzag in modo che il carrista, dopo che il carro armato si impantanava nel terreno, non riuscisse a capire dove fosse e non potesse uscire. Se ci riusciva, trovava le mine anticarro e antiuomo. E il filo spinato, che avrebbe potuto tagliare solo con le tronchesi. Io, con i miei compagni, con i partigiani, ero lì. Eravamo tutti d’accordo: dovevamo rallentare i lavori per agevolare il passaggio degli Alleati. Per sentire più vicina la pace e dimenticare l’odore della morte. Quando sono diventato capocantiere non ho gestito i turni delle presenze degli operai, ma piuttosto delle assenze. Dovevamo stare attenti a non dare troppo nell’occhio: i tedeschi non ci controllavano molto e proprio per questo dovevamo evitare di insospettirli.
Tutte le sere tornavo a dormire a casa a San Giovanni, facevo il pendolare. Tra aprile e maggio del 1944, quando il grano era già alto, i tedeschi hanno costruito nel mio paese un campo di aviazione. Per fare questo li ho visti appropriarsi di una parte del nostro terreno, ho visto i fascisti dormire nei nostri campi. A Montecchio il primo maggio del 1944 abbiamo organizzato uno sciopero. Eravamo circa un migliaio di operai.
I lavori della linea Gotica a Montecchio si sono interrotti poco dopo, quando a settembre gli Alleati sono riusciti a sfondarne il settore adriatico. Finalmente stava succedendo quello che aspettavamo, quello per cui avevamo sabotato i lavori e rischiato la vita. I tedeschi non sapevano cosa fare: la mattina del 3 settembre 1944 erano ancora a Gabicce Monte mentre nella notte gli Alleati erano arrivati al fiume Foglia, a Gradara e Tavullia. I nazisti erano nel panico e nel disordine, uno di loro in fuga da Gabicce sparò a un civile. Non sapeva che, sul versante adriatico, la sua guerra era finita. Gli Alleati si sono poi stabiliti al limite della pianura Padana e fino alla primavera del 1945 hanno interrotto la loro offensiva, a causa della difesa tedesca e delle forti piogge.
Dopo la liberazione, volevo vivere la ricostruzione del nostro paese. Volevo viverla sulla mia pelle. Mi sono iscritto al partito Comunista e per un anno ho fatto il sindacalista. Ma la paura non se n’era andata e avevamo tutti un gran terrore addosso: le mine. Le mine hanno ucciso il padre di tre ragazzi che conoscevo molto bene: erano stati fatti prigionieri e, finita la guerra, il papà era preoccupato. Pensava che tornando a casa avrebbero potuto trovare delle mine. Ha iniziato a sminare un campo ed è stato lui a morire.
Io volevo tornare a fare il contadino, ma il 1 gennaio del 1946 una cartolina dell’Aeronautica mi diceva che dovevo rimettermi la divisa. Non ero ancora stato congedato e per questo ho girato l’Italia e le sue caserme. A Bari, in realtà, dovevamo andare in caserma solo per dormire e mangiare. Mancava poco al referendum del 6 giugno e, con un compagno del Pci pugliese, ho fatto la campagna elettorale a favore della Repubblica. Ho votato la mia Repubblica a Bari. Era la nostra svolta, la nostra ricostruzione. Era la pace.