URBINO – Sempre più difficile conciliare giornalismo e avventura, oppure trasferirsi in un altro Paese per il lavoro che si ama. Oggi si rischia di raccontare i grandi eventi del mondo davanti allo schermo di un computer perché corrispondenti e inviati sono categorie in via di estinzione. Pesa la crisi delle testate giornalistiche e l’avvento dei social media.
La storia dei giornalisti inviati all’estero ebbe inizio in un giorno di ottobre del 1854. Fino ad allora esistevano solo i bollettini di guerra dei militari. Poi William Russell, un giornalista inglese, fu mandato dal Times a raccontare la guerra di Crimea. Il suo racconto dal vivo della battaglia di Bataclava, rimasto nella storia del giornalismo, si concludeva così:
Alle 11 e 35 non restava un solo soldato britannico, eccetto i morti e i moribondi, di fronte ai sanguinosi cannoni moscoviti
Era la prima volta che un giornale inglese raccontava con chiarezza una sconfitta del suo esercito. Le polemiche scaturite dal suo articolo, pubblicato a quasi un mese di distanza dai fatti, costrinsero Russell a rientrare dal fronte e ad abbandonare il suo lavoro.
Il mondo è cambiato, così come il giornalismo, ma Russell è un simbolo ancora vivo del ruolo fondamentale che hanno i testimoni diretti dei grandi eventi. Eppure oggi le figure del corrispondente e dell’inviato sono in crisi.
Su quattordici sedi estere, la Rai si appresta a eliminarne sette (Mosca, Madrid, Buenos Aires, Nairobi, Nuova Delhi, Istanbul, Beirut), che non avranno più corrispondenti fissi (passeranno da ventitre a sedici o meno, dipenderà dalla decisione definitiva del Cda ), ma solo inviati per fatti di grande rilevanza (sono diciotto quelli che si occupano di esteri tra tg1, tg2, tg3 e gr).
Rimarrà solo la sede Rai di Bruxelles, mentre le altre (Pechino, Parigi, New York, Berlino, Gerusalemme, Londra) saranno chiuse e i giornalisti troveranno alloggio nelle sedi dell’Associated press.
Stessi problemi per un’altra grande azienda editoriale italiana con proprie sedi all’estero, l’Ansa, che in seguito al taglio governativo di sei milioni di euro rischia di dover ridurre la propria presenza in giro per il mondo. Ma il calo dei corrispondenti riguarda molte altre testate: Repubblica ne ha perso uno (ora sono sette i fissi, rispetto agli otto del 2010 segnalati dall’Agenda del Giornalista); il Corriere della Sera è passato da tredici a nove, la Stampa da cinque a tre, il Messaggero ha solo due collaboratori fissi, che lavorano da Madrid e da New York, mentre tutti i principali eventi internazionali sono raccontati da inviati free-lance o da collaboratori occasionali.
Stesso discorso per Mediaset, che fa riferimento ad esterni, cioè a persone che non hanno contratto aziendale. Sky, l’altro grande colosso dell’informazione televisiva, ha solo quattro corrispondenti con contratto.
Ma anche all’estero le aziende editoriali non riescono più a sostenere i costi di corrispondenti, inviati e delle strutture che ruotano intorno a loro: traduttori, cameraman, tecnici. Fa eccezione il quotidiano spagnolo El Paìs, dove lavorano ben ventuno corrispondenti fissi, molti di più rispetto ai grandi quotidiani del nostro Paese. Peter Horrocks, direttore di Bbc world, al festival di giornalismo di Perugia del 2011 ha detto che sempre più in futuro gli inviati saranno affiancati da giornalisti locali, in grado di lavorare in autonomia.
Mort Rosenblum, per anni inviato di punta dell’Associated Press, ha sottolineato le importanti possibilità di lavoro che si aprono per i giornalisti free-lance in seguito ai tagli delle redazioni. E Mimosa Martini, del Tg5, si è detta pessimista rispetto alla possibilità per i giovani giornalisti di avere una chance di lavoro nei posti caldi del mondo.
Secondo uno studio di Media standard trust sulla stampa britannica, tra il 1979 e il 2009 quattro dei principali quotidiani del Regno Unito (Daily Mirror, Daily telegraph, Daily Mail e Guardian) hanno ridotto del 40 % il numero di articoli sui fatti internazionali, nonostante l’aumento delle pagine.
Ma come saranno raccontati i grandi fatti internazionali di fronte a una tale carenza di testimoni diretti? Per Horrocks, come detto, si potrà far leva sempre di più su giornalisti locali, abili anche a parlare la lingua del luogo degli eventi. E poi blog, social network e contributi user-generated sono una grande opportunità di riduzione dei costi per la rapidità di diffusione delle notizie, per la pluralità dei punti di vista, tanto che spesso hanno contribuito ad aumentare la visibilità su grandi eventi internazionali (lo tsunami del 2007, le rivolte in Iran dopo le elezioni del giugno 2009, il terremoto di Haiti del gennaio 2010, fino alle rivolte arabe dell’inverno 2011 e alla guerra in Libia).
Ma i principali problemi che si pongono per i nuovi social media riguardano la loro affidabilità (“Tweet first, verify later”, ovvero “prima twitta, poi verifica”, è la pratica prevalente in rete) e la capacità di approfondimento e di riflessione sugli eventi. Lo spiega bene in un suo articolo sulla rivista East il giornalista della Rai Amedeo Ricucci. Ci sarà sempre bisogno di giornalisti in grado di filtrare, approfondire, verificare e contestualizzare i fatti. Altrimenti potrà di nuovo accadere che una bufala, come quella della blogger lesbica siriano-americana Amina, sia ripresa da tutti i principali network editoriali del mondo.
E’ in questo senso che la rete difficilmente potrà sostituire il nostro moderno William Russell. Perché il lavoro del cronista non è solo raccontare: “Chi fa il mio lavoro -spiega Mimmo Candito, collaboratore in pensione e inviato de La Stampa – deve avere la capacità di scavare sotto l’apparenza della realtà e di prevedere ciò che può accadere. E’ come un investigatore che vede, mentre il cronista normale guarda”. Insomma, un inviato che è più un interprete della realtà che un narratore in prima linea degli eventi. Candido aggiunge che “il giornalismo è un atto testimoniale che non può essere sostituito da un algoritmo del computer. Perciò bisogna difendere il lavoro dell’inviato”.
Ma la verità, secondo il giornalista reduce dall’esperienza della guerra in Libia, è che “le agenzie internazionali stanno dimezzando gli inviati: ridurre la presenza testimoniale significa eliminare le ragioni stesse del giornalismo”.
Un giovane che riesce ancora a viaggiare e a fare il reporter è Cristiano Tinazzi, un free-lance che ha seguito la guerra in Libia. Ma non gli manca uno sguardo critico sul mondo del giornalismo: “La maggior parte dei corrispondenti delle testate italiane è composta da ex giornalisti della testata, molti in pensione o persone che vivono in loco per motivi di studio o professionali, ma che non sono giornalisti”.
“ Il problema di fondo – dice ancora Tinazzi – è che la figura dell’inviato sta letteralmente scomparendo dalla stampa italiana. La nostra presenza è ormai inutile perchè dobbiamo competere con i ritmi dell’informazione televisiva, che fagocita tutto e che non lascia il tempo di controllare e fare analisi. E’ la spettacolarizzazione dell’informazione. Ma per fare questa info-spazzatura, basta internet”.
C’è una differenza di fondo, secondo Tinazzi, tra giornalismo italiano ed estero: “Alla stampa italiana, e soprattutto ai media televisivi, poco importa della qualità. Cosa che non succede nei media internazionali. La qualità stessa degli inviati mandati sul campo tra quelli italiani e stranieri è abissale. E il fattore età è imbarazzante. Intere troupe della Cnn non superano i 40 anni con corrispondenti sui 35. Stessa cosa per le agenzie di stampa”.
[…] i dati raccolti pazientemente da Antonio Siragusa dell’Istituto di Formazione al Giornalismo di Urbino la tendenza è d’altronde […]