“Immagina un Paese in cui lo Stato non esiste, in cui non ci sono regole, garanzie, diritti. Immagina un Paese in cui tutti possono farsi giustizia da soli. Questa è la Somalia, il posto più pericoloso al mondo per fare il giornalista”. A parlare è Hussein Adan, membro della associazione torinese Soomaalya. Lui non è sorpreso dalla morte della cronista somala Rahma Abdulkadir, la terza dall’inizio dell’anno.
Rahma lavorava alla radio Abuduwaq. Il 25 marzo camminava per le strade di Mogadiscio. All’improvviso un gruppo di uomini armati si è avvicinato e ha sparato. Lei è rimasta lì, per terra, senza vita. “Non serve fare le grandi inchieste per venire ammazzati come cani, lì ti possono uccidere anche se sei antipatico a qualcuno. Tanto nessuno pagherà mai”, dice Hussein. Nel 2012 sono stati 18 i giornalisti ammazzati nel Paese.
Più di vent’anni di guerra civile hanno lasciato in eredità distruzione, paura, carestie e una triste rassegnazione. “Tutto è in mano ai clan che possono fare quello che vogliono”, continua Hussein: “La Somalia è una terra che non trova pace”. Dopo l’indipendenza dalla Gran Bretagna, nel 1969 con un colpo di Stato sale al potere il generale Siad Barre che governa fino al 1991. In quell’anno ha inizio una spietata guerra fra clan rivali per il controllo del Paese, tanto che l’Onu invia in Somalia un suo contingente armato per riportare la pace, senza però riuscirvi: i signori della guerra costringono alla fuga i caschi blu e i marines americani.
Nel 2006, dopo 16 anni di guerra, le Corti islamiche prendono il potere a Mogadiscio e nel sud della Somalia. Nel dicembre dello stesso anno, l’Etiopia, sostenuta dagli Stati Uniti, interviene per aiutare il governo provvisorio somalo a riprendere il controllo del Paese. Un anno dopo la situazione precipita: gli sfollati sono più di un milione e le truppe etiopi continuano a scontrarsi con i ribelli armati. Alla fine del 2008 il numero di profughi ammonta a 2 milioni.
Le Corti islamiche vengono sconfitte, ma dalle loro ceneri nel 2009 nasce l’organizzazione terroristica Al-Shabaab che in poco tempo controlla molte aree della Somalia centro-meridionale. Nel 2012 viene eletto dal Parlamento somalo un nuovo governo con a capo Hassan Sheikh Mohamoud. Tutt’ora gli scontri tra le varie fazioni continuano a dilaniare il Paese.
A pagare il conto di anni di insensate guerre sono stati le donne, i bambini e gli uomini della Somalia. La popolazione civile. I profughi. E i giornalisti che cercano di raccontare questo paese dilaniato. A pagare il conto è stata Rahma Abdulkadir. E’ stato Hassan Osman Abdi, il direttore di Shabelle Media Network, ucciso un anno fa a soli 28 anni da un commando armato davanti alla porta di casa. La sua colpa è stata quella di aver denunciato la corruzione del governo e la spietatezza dei seguaci di Al Shabaab. La radio dove lavorava Hassan dalla sua nascita nel 2002 ha avuto sette giornalisti assassinati, di cui tre direttori: prima di Hassan, è stato ucciso Bashir Nur Gedi nel 2007 e Mukhtar Mohamed Hirabe nel 2009.
Hussein Ismail, 29 anni, il suo conto l’ha pagato con l’esilio dalla sua terra, dalla sua famiglia: nel 2009 è scappato dalla Somalia. Nel suo Paese faceva il giornalista. “Avevo scritto un articolo su un ragazzo accusato ingiustamente di aver ucciso un suo coetaneo. Tutti sapevano che non era lui l’assassino. Quel giovane è stato condannato a morte senza neanche un processo”, racconta Hussein. “Dopo quell’articolo ho ricevuto la visita dei seguaci di Al Shabaab. Mi hanno minacciato. Così, ho deciso di partire, era l’unica via di salvezza. Molti miei colleghi erano già stati arrestati o uccisi”.
Per 5 anni ha vissuto in Etiopia, poi ha raggiunto la Libia e da lì si è imbarcato in uno dei tanti gommoni che portano il loro carico di disperati sulle coste siciliane. “Dall’Italia sono arrivato in Germania e poi in Norvegia. Poi però sono ritornato qui: c’erano tanti miei fratelli che arrivavano in Italia e non sapevano cosa fare, dove andare. Così a Bari ho fondato l’Associazione dei giovani somali e mi sono aperto un internet point”.
Hussein però non ha smesso di fare il giornalista: collabora ancora con il sito d’informazione somala Borama News. “Non posso più ritornare nel mio Paese. Mi hanno schedato e sanno tutto di me, dei miei articoli. Se metto piede in Somalia rischio la vita”.
Per tutti quelli che restano, il diritto di informare ha un prezzo alto: la vita. I giornalisti somali però non smettono di fare il mestiere più bello del mondo. Questo perché sanno che non esiste democrazia senza libertà d’espressione e perché, nonostante tutto, come dice Hussein Adan: “La Somalia ha voglia di vivere”.