Istituto per la Formazione
al Giornalismo di Urbino

i corsi - la sede - contatti
gli allievi - i docenti - l'istituto

A Urbino otto edifici ad alto rischio amianto: ma è vietato sapere dove

di e    -    Pubblicato il 13/06/2013                 
Tag: , , , , , , , , ,

URBINO – Studi, lavori o fai sport sotto un tetto d’amianto, e non lo sai. Anzi, peggio: non hai il diritto di saperlo. Secondo il censimento regionale dell’amianto del 2007 a Urbino ci sarebbero dieci siti a classe di rischio uno, quello più alto. Cosa significa? Il rischio uno sta a indicare la presenza di amianto friabile in edifici ad uso pubblico. Secondo il dottor Eugenio Carlotti, direttore del dipartimento prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro dell’Asur, il dato oggi sarebbe sceso a otto.

La Regione, l’Asur e l’Arpam conoscono quali sono questi edifici, ma il dato non è né pubblico né accessibile. L’Agenzia regionale sanitaria, responsabile del trattamento di questi dati, ci ha negato l’indirizzo di questi siti “per questioni di privacy”. Di chi, non è chiaro.

Il fax dell’Asr che comunica la decisione di non consentire l’accesso ai dati per questioni di privacy

“Se li pubblicate – ha aggiunto la dottoressa Mary Paolucci della Regione – poi magari le persone che ci abitano vicino potrebbero reagire male. Non le basta sapere quanti chilogrammi di amianto ci sono in totale?”. Il dottor Giovanni Cappuccini della zona Asur di Urbino ci ha invece consigliato di limitarci, per capire quali sono gli edifici interessati, a osservare le “onduline” sui tetti: “La comunicazione del rischio – ha aggiunto – è una cosa seria: se li rendiamo pubblici poi succede un casino“. La Regione non fornisce l’accesso ai dati nemmeno alle ditte che si occupano della bonifica.

Oltre a questi otto siti ad alto rischio, secondo il censimento ci sarebbero anche 65 edifici di classe due. Significa che sono ad uso pubblico con amianto compatto; oppure con amianto friabile ma a uso privato. Sempre secondo il dottor Carlotti, oggi il dato sarebbe sceso però a 22, probabilmente dopo le bonifiche dei tetti crollati a causa del nevone. L’amianto compatto è meno pericoloso di quello friabile: l’oncologo Daniele Spada dell’ospedale di Urbino ha spiegato che il rischio è dato dalla possibilità di rilascio delle fibre. Per diventare friabile, e quindi più pericoloso, basta che l’amianto compatto presenti una crepa.

Inoltre, l’amianto nella zona di Urbino potrebbe essere molto più di quello che riportano i dati del censimento del 2007. L’ingegner Gilberto Giannini dell’Arpam di Pesaro (Agenzia regionale per la protezione ambientale) ha affermato che, oltre a non essere aggiornato, il censimento è incompleto perché non tiene conto degli edifici privati e si basa su dichiarazioni spontanee. A Urbino, su un totale di 11.268 richieste di segnalazione inviate, sono state ricevute solo 2.459 risposte, cioè il 22%.

Le fibre di amianto, se respirate o ingerite, possono causare un tumore chiamato mesotelioma. La speranza di vita di un malato è di 6-9 mesi e, secondo il registro regionale dei mesoteliomi dell’università di Camerino, dal 1996 al 2008 i casi di morte per amianto nelle Marche erano 303. Secondo Silvia Cascioli della Cgil di Urbino, che si occupa delle pratiche di denuncia di malattie professionali, nella nostra zona non ci sono state  segnalazioni recenti di malattia per amianto. Ma i casi registrati fino al 2008 a Urbino e dintorni sono nove.

La tabella del registro dei mesoteliomi dell’università di Camerino (aggiornato al febbraio 2008)

Il mesotelioma insorge in media 30 anni dopo l’esposizione alle fibre d’amianto e, secondo i dati del German mesothelioma register, siamo ancora in attesa del picco di insorgenza per le esposizioni avvenute negli anni 80-90.

Va detto che la bonifica dell’amianto non è obbligatoria. Il proprietario di un edificio che lo contiene è tenuto a denunciarne la presenza all’Asur, e deve sostenere personalmente i costi della bonifica. I prezzi sono alti: l’azienda Ekofarma di Urbino, per bonificare un tetto di 2000 metri, diventato pericoloso dopo la nevicata dell’anno scorso, ha speso 40.000 euro (più 90.000 per la ricostruzione). L’Asur, ricevuta la denuncia – che può essere fatta anche da persone terze che si sentono esposte al rischio di amianto – fa dei sopralluoghi e può rendere obbligatori i lavori di risanamento.

Sullo stesso argomento:

Un commento to “A Urbino otto edifici ad alto rischio amianto: ma è vietato sapere dove”

  1. francesco maranta scrive:

    LA LOTTA CONTRO L’AMIANTO NON HA MAI FINE
    Francesco Maranta e Vincenzo Gagliano

    Il 14 febbraio 1989 il Consiglio di Fabbrica (in seguito: CdF), organo
    di rappresentanza dei lavoratori dell’Officina FS di S.Maria La Bruna
    (in seguito: Officina) decise di occupare l’impianto per difendere la
    salute dei lavoratori, degli utenti e dell’ambiente esposti
    all’inquinamento da amianto.

    Erano circa le ore 14.00 di quel 14 febbraio 1989, quando l’esecutivo
    si recò nell’ufficio del capo officina, invitandolo a lasciare la
    palazzina direzionale insieme a tutti gli impiegati. Ebbe inizio una
    lotta che durò 45 giorni e che lasciò un segno decisivo nella storia
    della fuoriuscita del Paese dall’epoca dell’amianto.

    L’intera vicenda aveva avuto inizio nel 1980, quando, casualmente,
    alcuni lavoratori vennero in possesso di una documentazione, tenuta
    cinicamente segreta dalla direzione, che poneva in chiara evidenza la
    estesa presenza dell’amianto e l’assenza di qualsiasi informazione e
    tutela dei lavoratori. Il CdF ebbe così la consapevolezza che
    l’impianto era un luogo di morte. L’Officina era stata inaugurata nei
    primi anni ’70. Un luogo produttivo a forte innovazione in
    sostituzione degli storici impianti dell’Officina delle Ferrovie dello
    Stato dei Granili e Pietrarsa. Effettuava, (ed effettua ancora),
    interventi radicali di manutenzione e ristrutturazione sulle carrozze
    dei treni ferrovie. In quel periodo per “coibentare” le vetture e i
    locomotori si adoperava l’amianto (circa 800 Kg per vagone). Fu
    documentato l’inquinamento dell’impianto di climatizzazione con la
    conseguente presenza di fibre d’amianto nei compartimenti viaggiatori.
    Gli operai avevano per decenni e decenni lavorato, nei vecchi impianti
    senza conoscere un tale pericolo. Tutti i vecchi lavoratori ricordano
    la presenza di ingenti quantità di amianto in ogni angolo e l’assenza
    completa di protezioni. La discussione sindacale e politica in quel
    1980 fu lunga e drammatica. Il sindacalismo confederale (CGIL, CISL,
    UIL) non negavano la pericolosità della situazione, ma ritenevano
    sufficiente dotare i lavoratori di protezioni adeguate. Per molti
    lavoratori e per alcune sigle dei sindacati di base era invece l’uso
    dell’amianto che non era accettabile, alla luce delle conoscenze
    scientifiche sui danni che provocava. Un nucleo di esperti di medicina
    del lavoro di Bologna guidato dal professor Maltoni, e dal tenace
    professore Giacomo Giordano a Napoli affermavano, infatti, che anche
    una sola fibra di amianto era in grado di provocare il mesotelioma.

    Alla fine di una lunga discussione fu approvato dall’assemblea dei
    lavoratori una richiesta di protezioni per le fasi di lavoro
    dell’amianto. Si trattava di varare un programma cosiddetto di
    “s-coibentazione” totale dei vagoni. I lavoratori, protetti solo da
    una tuta speciale e da un casco con
    respiratore, dovevano con un raschietto erodere tutta la coibentazione
    d’amianto dai vagoni. Tutte le protezioni riducevano solo la presenza
    di fibre negli ambienti non protetti e nell’esposizione dei lavoratori
    direttamente impegnati nelle lavorazioni a rischio. Dunque, il rischio
    zero era escluso e vi era la possibilità concreta di contaminazione.

    L’esperienza dimostrò che il programma di “s-coibentazione” era
    illusorio, per la vastità degli interventi, per la rozza dotazione
    tecnologica e anche per il malaffare con cui vi fu l’affidamento dei
    lavori a ditte private. Infatti, non furono rari i casi nei quali i
    lavoratori impegnati in operazioni in zone fortemente inquinate e
    privi di protezioni. Alcune ditte, come la Graziani di Avellino,
    effettuarono operazioni senza protezioni e direttamente nelle
    stazioni all’aperto.

    Intanto cominciavano ad accumularsi i dati sui casi di morte da
    amianto tra gli ex operai di Pietrarsa e Granili. Nacque
    l’Associazione Esposti Amianto, un associazione che combatteva per i
    risarcimenti e per la fuoriuscita dell’Italia dall’amianto. Un forte
    clima di tensione era determinato dall’assenza di attenzione al
    problema tanto da parti degli imprenditori quanto di alcune forze
    sindacali. Fu un susseguirsi di numerose interruzioni spontanee del
    lavoro, di numerose discussioni interne al CDF. Finalmente, nel 1989,
    non si fu più disponibili a mediazioni sulla salute dei lavoratori,
    un diritto tutelato anche dall’articolo 33 della nostra costituzione.
    Non vi era nessun reale programma di bonifica delle vetture e degli
    ambienti.

    L’occupazione e la sospensione di tutte le attività a rischio diede
    vita ad una fase di riorganizzazione del lavoro non inquinato, gestita
    direttamente dal CdF e dall’assemblea generale che veniva riunita ogni
    mattina prima dell’ora di inizio attività (8.00) e ad ogni pausa
    pranzo (12.00). L’unità dei delegati di fabbrica e dei lavoratori,
    richiamò il sindacato alle proprie responsabilità. Le discussioni
    delle Officine di SMLB in quei 45 giorni coinvolsero le istituzioni
    locali, i vertici del sindacato e dei partiti. Importanti voci di
    indirizzo e sostegno, come quella dell’allora vescovo di Acerra don
    Riboldi giunsero a sostegno di quella protesta. Il punto debole era
    ancora una volta la posizione del sindacato confederale e dei partiti
    della sinistra storica (PCI, PSI), che pur non negando la fondatezza
    dei timori e delle rivendicazioni tentarono di far passare in fabbrica
    ancora una volta la linea della gradualità. La rivendicazione del CdF
    era chiara: 1) costruzione di un nuovo parco vetture senza amianto 2)
    non utilizzare i lavoratori per la coibentazione delle vetture con
    amianto 3) individuazione in sede europea dello smaltimento delle
    vetture con amianto e dei residui delle lavorazioni passate (a tal
    proposito è utile rammentare che le scorie delle lavorazioni a rischio
    di andavano senza alcun controllo, perché venivano classificate come
    “fanghi industriali”, nella discarica di S. Marco Evangelista in
    provincia di Caserta).

    Non si sarebbe ceduto di un millimetro, nonostante la forti pressioni,
    [ed è bene ricordare a tal proposito che l’allora responsabile di
    segreteria nazionale della CGIL era Mauro Moretti, ieri sindacalista
    oggi amministratore delegato di Ferrovie dello Stato]. Minacce e
    pressioni che, invece, ebbero effetto su un vasto fronte delle altre
    Officine FS del paese e su quelle private, come la Sofer e L’Avis.
    Nell’opera di allargamento delle forze in campo il CDF delle Officine
    SMLB non si risparmiò. Furono svolte assemblee a Vicenza, Verona,
    Firenze, fu tentato un avvicinamento con Fiom, Fim e Uilm e con i CdF
    dell’Avis di Castellammare, della Sofer di Pozzuoli e della Cementir
    di Bagnoli, ma il timore della perdita del posto di lavoro e il
    mancato sostegno dei sindacati di settore e confederali impedirono la
    saldatura degli interessi e delle vertenze. Fa emozione e rabbia oggi
    pensare alla chiusura di queste imprese, dopo la riesumazione delle
    salme dei lavoratori che nel frattempo sono morti per l’amianto.

    In un tale clima si rese obbligatorio il ricorso alla magistratura
    per i gravi danni alla salute e all’ambiente. Il CdF presentò un
    esposto alla Procura di Firenze, sede della direzione di tutte le
    Officine FS del paese. Il magistrato incaricato dell’inchiesta, il
    dott. Deidda, compiuto il sopralluogo sull’impianto, svolse
    interrogatori di lavoratori, rappresentanti sindacali,dirigenti
    aziendali, di esperti. Valutati i risultati delle indagini ambientali
    emise un provvedimento di sequestro e ordinò la cessazione delle
    attività inquinanti. Contro un tale legittimo atto, che per la prima
    volta faceva compiere allo Stato un passo decisivo per la salvaguardia
    dall’amianto, le FS fecero ricorso, sollevando non questioni di
    merito, ma di competenza territoriale. Il ricorso fu accolto e
    l’inchiesta trasferito alla locale sede della Pretura. Fu solo la
    determinazione di operai e delegati a voler continuare la lotta che
    impedì a quel disastroso intervento della magistratura di stroncare
    la ricerca intorno ad un delicato problema nazionale. Grandi forze
    economiche e del potere italiano si mossero contro quella vertenza,
    perché gli interessi in campo erano ingenti, [si pensi ai numerosi
    settori di utilizzazione dell’amianto, ai costi di fuoriuscita e agli
    indennizzi da corrispondere da parte di chi aveva mandato per decenni
    gli operai al macello, aveva esposto le loro
    famiglie e i cittadini al pericolo]. Dopo 45 giorni, di grandi
    manifestazioni a Torre del Greco, a Napoli, a Roma, a Firenze, si era
    marcata una presenza anche nel sistema dei mass-media nazionali [ci fu
    anche una presenza del CdF delle Officine nella allora trasmissione
    “Samarcanda” di Michele
    Santoro]. Erano stati praticati tutti i tavoli di trattava con
    l’azienda e con il governo, sperimentate le chiusure anche di CGIL e
    PC. Il CdF non poteva più chiedere solo ai lavoratori di SMLB di
    protrarre una lotta con le sole loro forze e fu invocato, alla fine,
    il diritto individuale iscritto in Costituzione alla tutela della
    propria salute e in tal senso furono avanzate due richieste: 1) la
    possibilità per chi lo richiedesse di essere trasferito in altro
    impianto FS del territorio privo di rischi da amianto, 2) la
    corresponsione del salario relativo ai 45 giorni di lotta, in ragione
    del fatto che tale lotta era stata svolta a tutela della salute e
    coinvolgendo solo le lavorazioni rischiose. Tale ultimo riconoscimento
    avrebbe avuto un significato molto importante, proprio in relazione
    alle fragilità sindacali e operaie nell’affrontare la questione e alla
    necessità di assegnare un valore simbolico nazionale all’iniziativa.

    La prima richiesta fu accolta e centinaia di lavoratori lasciarono
    l’Officina per affermare un diritto inderogabile e, continuando la
    loro battaglia in decine di altri impianti del napoletano [come
    dimostrano le successive vertenze dei lavoratori di Napoli Traccia e
    Smistamento]. La seconda, proprio perché carica di significati
    politico ideali, fu respinta e i lavoratori si videro detrarre dalle
    buste paga il loro magro salario. Si tentava di toccare il punto più
    fragile di ogni lavoratore. Il CdF avviò la richiesta di reintegro
    salariale, facendo della vertenza giudiziaria un caso politico. Dopo
    alcuni anni,la magistratura accolse il ricorso e furono restituite le
    somme trattenute. Fu anche evidente l’interesse pubblico alla tutela
    della salute dai rischi prodotti dall’amianto. Le FS hanno tentato
    sino alla Cassazione di averla vinta, ma lo Stato ha deciso che i
    lavoratori avevano ragione.

    Nel 1992 il Parlamento italiano, mentre ancora erano vive le voci
    della lotta dei ferrovieri delle Officine e le loro iniziative, ha
    varato la legge per il superamento dell’amianto, che è ancora tutta
    improntata alla misura dei livelli di rischio (tra l’altro innalzati
    dai governi successivi), ma che finalmente apre la fase della
    fuoriuscita dall’amianto e che sancisce l’obbligatorietà delle
    protezioni, del riconoscimento dei benefici previdenziali e degli
    indennizzi. Non si tratta che di continuare, da una postazione più
    avanzata, le combat.