Spagna: così dalla crisi è nato il “giornalismo della rivoluzione”

di LUCIA GABANI

URBINO – In Spagna, nel 2008, la crisi economica ha colpito le aziende di ogni settore. Tra queste, c’erano anche diversi gruppi editoriali che, per evitare il fallimento, hanno venduto le loro quote azionarie alle banche. Un’azione che inevitabilmente ha compromesso la libertà di stampa dei grandi giornali del Paese. Parola del professor Wenceslao Castañares e la professoressa Cristina Peñamarín, Università Complutense di Madrid, intervenuti al seminario internazionale “La costruzione delle controversie nella sfera pubblica mediatizzata, analisi semio-etnografica dell’informazione” ospitato dall’università di Urbino Carlo Bo.

Come hanno spiegato i professori dell’università spagnola, con il crollo dell’economia il popolo cercava spiegazioni negli articoli dei grandi giornali come El Mundo o El País. Ma nulla: le due testate non potevano rispondere agli interrogativi degli spagnoli proprio perché controllate da banche e politici. Così, mentre gli istituti di credito s’impossessavano degli appartamenti dei clienti insolventi, nei giornali mainstream passavano sotto silenzio le decisioni economiche e politiche dei ‘potenti’. E nemmeno una riga per le prime proteste. Il culmine si è avuto il 15 maggio 2011, giorno delle elezioni amministrative, quando il movimento di protesta degli Indignados s’è imposto nella scena mediatica e hanno costretto i giornali a parlare di loro.

“La gente ha iniziato a scendere in piazza per ribellarsi contro l’omertà non solo dei potenti, ma anche dei giornali – ha spiegato la professoressa Cristina Peñamarín – che rappresentano un elemento fondamentale e indispensabile per la democrazia”.

Ma la rete non basta. I social network hanno aggregato centinaia di ‘indignati’ che, secondo la professoressa Peñamarín hanno “modificato il loro modo di comunicare”. Dalla rete e dalle proteste sono nati i movimenti politici come  Podemos e Ciudadanos che, però, “hanno dovuto fare i conti sempre con la comunicazione tradizionale ovvero le piazze delle città”.

Cosa è cambiato. Molti cronisti, dopo essere stati licenziati, hanno deciso di reiventarsi e dare nuova linfa all’informazione. Da una parte c’erano giornalisti che volevano continuare a fare il loro lavoro, dall’altra un popolo che pretendeva risposte. Così, con donazioni dei lettori, abbonamenti e pubblicità (importante ma non determinante), sono nati progetti editoriali di successo come eldiario.es, testata online che racconta l’attualità in modo indipendente. E una volta partita la rivoluzione mediatica, tutti i mezzi di informazione hanno dovuto fare i conti con la novità. Primo tra tutti, secondo il professore Wenceslao, La Sexta (canale televisivo spagnolo) che ha ridimensionato l’informazione politica e il proprio modo di parlare al Paese. “In passato i media erano attori di quella che oggi definiamo la vecchia politica – ha detto Miguel Alvarez Peralta, dell’Università Complutense di Madrid – da quando i movimenti sociali si sono rafforzati, i media sono diventati uno scacchiere dove si sviluppa la controversia, concetto sempre più importante per attribuire credibilità ai nuovi rappresentanti”.

Come cambia la sfera pubblica. “Non tutti i giornali indipendenti sopravvivono in Spagna perché la maggior parte delle persone danno per scontato che l’informazione sia gratuita. Tuttavia, c’è chi preferisce pagare pur di essere informato con servizi di qualità” ha precisato Wenceslao.

Tutti i paesi possono vivere la “rivoluzione” spagnola? “No – ha concluso il professore –  perché in alcuni paesi la carta stampata ha più potere della rete e resta la principale fonte d’informazione”.