di ELEONORA SERAFINO
FERMIGNANO – Al soffitto un quadro ricoperto di pan di stelle, sul pavimento un tappeto persiano dipinto al centro con linee e colori che ricordano un quadro di Pollock, a una parete tele monocolore con una lampada abbronzante, una sacca di sangue, un poggiatesta.
Nell’atelier di Davide Mancini Zanchi le sue creazioni si confondono con pennelli, barattoli di pittura, manici di scopa saldati insieme a formare sculture penzolanti.
Sono gli oggetti di uso comune quelli che ispirano maggiormente quest’artista marchigiano, nato a Urbino e residente a Fermignano, dal nome importante. “Ho due cognomi perché mio padre un giorno per evitare la leva militare decise di prendere anche quello di una zia che lo aveva adottato” ci spiega, mentre descrive alcune delle opere che ci circondano e quelle che dal 16 marzo al 28 aprile saranno esposte a Urbino, nello Spazio K, gli ambienti di Palazzo Ducale un tempo adibiti a cucina.
Mancini Zanchi, dopo un diploma in pittura all’Accademia delle Belle arti della città ducale e diversi premi nazionali e internazionali vinti, ha deciso di non lasciare la sua terra. E, anche dopo aver respirato il fermento artistico parigino, esponendo per la prestigiosa fondazione Dena foundation for contemporary art, ci dice: “Sto bene qui. Sono legato a questi luoghi”.
Dopo mostre in tutta Italia, ritorni nella città natale con un’esposizione a Palazzo Ducale. Come è arrivata la proposta?
Io e Riccardo (Riccardo Bandini, organizzatore della mostra, ndr) ci conosciamo dai tempi dell’Accademia. Un giorno è venuto nel mio atelier e si è innamorato di alcuni miei lavori. Dopo l’Accademia è la prima mostra che faccio in cui non espongo un singolo progetto, ma il sunto di ciò che ho fatto finora. Le opere esposte non fanno parte di nessun ciclo, non sono nate per convivere.
Ci racconti cosa vedremo?
Un quadro al pavimento, o meglio una serie di quadri ispirati alle macchine tipo Fast and Furious, con dei neon sotto e dei bordi in carbonio e al centro uno scorpione. Un chiaro rimando a un ritratto di Raffaello, quello di Elisabetta Gonzaga, in cui la donna ha sulla fronte un diadema con uno scorpione. Poi c’è una moto elaborata da me, che richiama una tela di Alberto Burri, ed è un po’ il contrario dell’opera precedente. Il quadro a terra è un quadro che vuole sembrare una macchina, questo è una moto che funziona, ma che vuole assomigliare a un quadro. E ancora una struttura a 12 facce, con elementi che si uniscono a formare dei pentagoni. Una forma che ritroviamo in un libro di Piero Della Francesca e che è ripresa anche nel lampadario tipico di Urbino, la stella ducale, un dodecaedro. Infine abbiamo una composizione di 15 zerbini che, come in una pala d’altare, diventano un po’ come parti di una scena di politici rinascimentali o medievali.
Il fil rouge di queste opere sembra essere il rimando al Rinascimento. Quanto ha influenzato la tua arte l’essere cresciuto in luoghi così intrisi di storia, come Urbino e Fermignano?
Da bambino vivevo dietro al Palazzo Ducale, mi sono nutrito di quelle immagini. Non sono uno storico dell’arte, ma certe cose mi affascinano e trovo giusto che nel mio lavoro ritornino in qualche modo. In particolare, le opere scelte per la mostra Spazio K si avvicinano un po’ di più al linguaggio canonico, ma l’arte rinascimentale è solo un rimando.
Insomma segui una linea tracciata da altri e la modifichi…
Sì, la modifico per mia necessità, è un po’ quello che faccio con tutto il resto, nella vita.
Volontà di trasmettere un messaggio o istinto non ragionato?
Non ho un messaggio da mandare, ma non faccio neanche le cose a caso. Le mie opere sono sempre frutto di un processo mentale e c’è sempre un legame con quello che ho fatto in precedenza. C’è un’opera di un artista degli anni ’70 che si chiama Un flauto dolce per farmi suonare. Quest’artista non sa perché lo fa, semplicemente quando dipinge è come se venisse suonato. L’arte per me è un po’ questo, non è una mia scelta, non saprei dire bene perché, ma a un certo punto so che devo fare quella cosa lì.
Spesso le idee partono da oggetti banali, di uso quotidiano, che sono quasi una costante nei tuoi lavori…
Sì, mi piace l’idea che guardando un’opera puoi ritrovarci un oggetto che puoi avere in casa. Si crea così un legame con chi ipoteticamente possiede quella cosa, una simpatia. In più, non usare colori a olio o qualunque cosa troveresti in un negozio di belle arti, ma cose che vendono in un supermercato, fa sorgere delle domande: “E’ arte? Non è arte? Può esserlo? Non può esserlo?”.
Quindi vai a fare la spesa al supermercato, vedi un oggetto e…
E può capitare che me ne innamori. Mi è successo con dei biscotti. Vedo dei biscotti con delle stelle, mi piace l’idea che ci sia il cielo nei biscotti e sento di dover trasformare questa idea in immagine, che sia un quadro, una scultura, un video.
Ecco, pittura, scultura, video… Le tue incursioni in diversi ambiti dell’arte sono molteplici. Come scegli in che modo esprimerti?
Tutto inizia dalla fascinazione per un oggetto o per un’idea, un libro, un film visto… Sviluppando questa idea, cerco la situazione che reputo migliore perché venga compresa.
Dunque, quando crei, pensi alla persona che farà da spettatore? Al fruitore?
No, non ci penso, però mi piace che dentro una mia opera o dentro l’opera di qualcun’altro tutte le componenti siano visibili, così che l’opera stessa venga in un certo senso assimilata.
Osservando diverse tue creazioni, dalle prime fino a quelle che verranno esposte al Palazzo Ducale, sembra ci sia stata un’evoluzione. Alcune sembrano quasi appartenere a due persone differenti …
È vero! Vedendo la mostra di Brescia e quella di Palazzo Ducale, se non leggi il nome, puoi pensare che non siano dello stesso artista. Questo perché per me è fondamentale navigare in una totale libertà. Però ci sono delle cose che ritornano, ad esempio la mostra di Brescia è fatta con opere in cui ho utilizzato un materiale che si usa per costruire le macchine ed è lo stesso usato in un quadro esposto a Palazzo Ducale.
Nelle tue prime videoinstallazioni ti si vede intento a lavarti i denti con un sasso in bocca, a ricoprirti interamente testa e volto con lo scotch, a farti scivolare un elastico sul viso… Perché a un certo punto hai abbandonato completamente queste forme di espressione?
Fondamentalmente mi sono stancato. Esponevo quelle cose al terzo e quarto anno dell’accademia ed erano viste con occhio ironico. Tutti mi dicevano ‘Quanto sei simpatico!’. In realtà io non volevo fossero simpatiche. Nel mio lavoro c’è una componente leggera, non voglio indottrinarti o insegnarti qualcosa, però non voglio nemmeno farti ridere. Così ho cambiato direzione.
Fino ad arrivare addirittura a esporre a Parigi…
Sì, sono stato sei mesi in residenza, con una fondazione abbastanza importante. Questa della residenza è una cosa molto prestigiosa, che sta andando molto. In pratica una fondazione, un’associazione, un museo ti ospita in uno studio, ti porta gente e il tutto si conclude con una mostra. È stato bello. Ma sono stato contento di tornare in Italia.
Perché?
Perché sto bene qui, mi sono costruito un piccolo circuito di artigiani che sanno come voglio le cose. E poi qui riesco a creare di più, ho un forte legame con questi paesaggi, con le Marche, con Fermignano e il Montefeltro.
Cosa c’è in cantiere?
Per ora il mio cantiere è la mia testa. I miei prossimi progetti sono ancora tutti qui (si indica la testa, ndr). Sto per preparare un lavoro per una mostra collettiva in provincia di Torino, in un castello seicentesco, con una ventina di artisti. Inoltre sto cercando di capire se riesco a fare quel che vorrei in una personale a settembre, vicino a Bergamo, con palloncini di elio di varie forme.