di OLGA BIBUS
PESARO – Antonio Pinelli, storico d’arte che ha scritto per la Repubblica e il Messaggero, in occasione del Festival del giornalismo culturale, ha ripercorso le tappe principali dell’evoluzione del racconto d’arte nei media. A intervistarlo Giorgio Zanchini, giornalista e condirettore del Festival.
Se uno degli obiettivi dell’evento punta a indagare come la Rete abbia influenzato l’informazione culturale, Pinelli ammette di essere stato uno dei primi a inserirsi dalla parte degli “integrati” in quella che lui ha definito l’antica lotta contro gli “apocalittici”. Cioè tra quelli, come lui, che credevano che l’arte dovesse aprirsi alle novità della tecnologia e quelli che, invece, vedevano nell’apertura la fine di una divulgazione di qualità.
“Mi sono inserito dalla parte degli integrati – afferma Pinelli – perché credo nella democrazia anche nel sapere. Volevo portare avanti una democratizzazione della cultura, ampliare la platea dei colti”.
Lo storico d’arte ammette peró che l’apertura dell’arte ai nuovi media non ha avuto solamente effetti positivi. Da un lato chi scriveva ha potuto, con i fax prima e con le email poi, mettere da parte la gravosa macchina da scrivere e mandare articoli in un click da qualunque parte del mondo. Una rivoluzione di cui Pinelli si compiace tutt’ora. La “democratizzazione” ha avuto peró anche un effetto collaterale: la mostrite. “Se prima si facevano al massimo 20 mostre l’anno, ora c’è un’alluvione di mostre. L’informazione sull’arte ha fatto sí che l’arte stessa diventasse una sorta di religione. Si va alle mostre solo per andarci, senza guardarle”.
Secondo Pinelli però nell’era della mostrite il ruolo del critico d’arte è diventato quasi piú importante di prima perché “l’intellettuale ha la responsabilità di diffondere il vaccino dello spirito critico” tra i non addetti ai lavori. La televisione e poi internet hanno annullato le distanze tra il pubblico e l’arte. Ma non tutti hanno le competenze per comprendere l’informazione artistica di cui siamo inondati. Ed è qui che devono intervenire i critici d’arte e i giornalisti. “L’arte è pensiero fatto immagine- spiega Pinelli – noi dobbiamo fare chiarezza. Spiegare questo pensiero. A volte basta un aggettivo, una metafora. Allo stesso tempo dobbiamo suscitare interesse, curiosità”.
Il proliferare di mostre ha comportato un altro effetto negativo per l’informazione artistica: gli organizzatori di eventi a un certo punto piú che guadagnarsi gli spazi nei giornali hanno deciso di comprarli. “A Repubblica per esempio il giornale per cui scrivo, dal 2005 è iniziata a comparire la pagina comprata. Funziona cosí: l’organizzatore della mostra paga e il giornale scrive”. Pinelli ammette di aver lottato tanto contro questa mercificazione dell’arte, ma ha perso la sua battaglia. Assicura peró di non aver mai fatto elogi o stroncature a pagamento.
Ma se da un lato aumentano le mostre, dall’altro diminuiscono nei giornali gli spazi da dedicare ai singoli eventi. “Ci siamo ritrovati a dover far stare una mostra in 30/60 righe. Per me è stato difficilissimo. A volte ci metto delle mattinate per scrivere 60 righe su un evento. Perché bisogna informare su quello che c’è nelle mostra e lasciare anche una suggestione per invogliare il lettore ad andare a visitarla”.
La mostrite è stata secondo Pinelli il male che ha afflitto l’informazione culturale nell’era digitale. Ha ristretto gli spazi, la libertá e infine anche la varietà del racconto dell’arte. “Le mostre si moltiplicano – spiega lo storico – ma tendono a puntare sempre sui soliti: Michelangelo, Raffaello, Caravaggio per citarne alcuni. E poi si fanno mostre in cui non ci sono nemmeno gli artisti a cui l’evento è dedicato. Ad esempio quella di Leonardo senza un quadro attribuibile a Leonardo”.
Pinelli considera l’Italia “un museo all’aperto”, ci sono tantissimi centri, tantissime mostre, ma l’informazione tende a parlare sempre dei soliti.
Per quanto riguarda invece le possibilità nell’informazione culturale per i giornalisti di domani secondo Pinelli anche i giovani possono parlare di arte, ma devono accontentarsi della spalla. Perché nei grandi giornali di solito il pezzo principale lo cura il critico d’arte, non il giornalista. “A meno che non scriviate per dei giornali locali – precisa, questa volta, Zanchini – lí potreste trovarvi da soli a dover gestire tutta la pagina”. Pinelli ricorda peró che una volta gli è capitato di scrivere la spalla a un suo allievo. “Mi sono firmato come il maestro di Giotto: Cimabue”, scherza.