Tv, radio, cinema e il loro rapporto con il web. Servono nuovi linguaggi per nuovi pubblici

di ELEONORA SERAFINO

FANO – “I mezzi di comunicazione tradizionali, come radio e tv, hanno il dovere di permeare la rete”. Subito e con poche parole Fabio Cappelli ha delineato il nuovo scenario dei media nell’incontro conclusivo del Festival del Giornalismo Culturale, dal titolo “La televisione, il cinema, l’arte, la divulgazione”, che si è tenuto nella Mediateca della Biblioteca di Fano. Con lui, tutti concordi nel riconoscere al web e ai social una funzione primaria: quella di fidelizzare il pubblico e di allargarlo, la direttrice del Festival, Lella Mazzoli, il critico cinematografico e direttore artistico Steve Della Casa, e il giornalista di RadioRai Francesco D’Ayala.

In un canale come Rainews24, ad esempio, spiega Cappelli, che è un all news e quindi non raggiunge i picchi di ascolto del tg della rete ammiraglia o del Tg2, i social danno la possibilità di raggiungere un pubblico più vasto, che è anche “un pubblico più consapevole, perché quelle cose che sta guardando se l’è andate a cercare”. Il web non è visto dal caporedattore “come un imbarbarimento”, ma un arricchimento, a patto però che venga usato in maniera appropriata.

Riuscire a sfruttare tutte le potenzialità che la rete offre e nel migliore dei modi, in realtà, non è facile e, come è emerso durante tutto il Festival, e come ribadisce Lella Mazzoli, “richiede grandi competenze”. Niente improvvisazione, insomma. Che ci si serva dei social per rilanciare un servizio radiofonico, un documentario tv, uno speciale sull’arte o un approfondimento sul cinema, è necessario conoscere il mezzo e, soprattutto, i linguaggi. Perché, precisa D’Ayala, “se la tecnologia non è accompagnata da un cambio di linguaggio, diventa inutile”. Il segreto ogni volta sarebbe “capire come diventare interessanti per il pubblico di internet, che è fatto di molti giovani ma non solo, piuttosto che restare arroccati nel proprio sistema”.

Preparazione e umiltà è la ricetta da lui consigliata e condivisa da Cappelli. “Utilizzare i social significa spesso accompagnare il pubblico a scoprire quanto è valido un prodotto. Ma per farlo al meglio, bisogna riconoscere i propri limiti”, continua il caporedattore, “io, ad esempio, so che con la mia formazione non ci arrivo subito, certe cose non mi vengono automatiche come invece ai giovanissimi, da cui c’è tanto da imparare”.

Della stessa idea Steve Della Casa, che per scelta, “la scelta di dedicare il mio tempo ad altro”, non è iscritto ad alcun social network, ma ne riconosce così l’importanza in campo comunicativo: “La mia trasmissione (Hollywood Party, Rai Radio3) fa dirette Facebook, mette a disposizione sul sito materiali extra, insomma ha tratto linfa vitale dal web, senza il quale avrebbe forse già chiuso i battenti, perché non avrebbe intercettato certi pubblici”.

Il problema dei pubblici da raggiungere, soprattutto quando si parla di cultura, non è secondario e probabilmente è alla base della scelta fatta inizialmente dai quotidiani cartacei, e poi anche dai telegiornali e dai radiogiornali, di accorpare la cultura agli spettacoli in una macro-sezione, in cui spesso i secondi fagocitano la prima.

Un dato confermato da Cappelli, e quindi riscontrabile anche nelle varie edizioni di Rainews24, con servizi principalmente dedicati alla musica pop e al cinema. In realtà, come spiega Steve Della Casa, anche il cinema ha difficoltà a essere veicolato in tv, “tutti i programmi di cinema in televisione sono destinati a fallire, tranne quello di Marzullo, che però invita solo sociologi che esordiscono sempre dicendo ‘non ho ancora visto il film, ma… ’”.

Segno – dice il direttore artistico – che “la critica cinematografica in Italia sta quasi scomparendo del tutto. Anzi, forse è davvero scomparsa nel secondo dopoguerra con quella di stampo cattolico opposta a quella marxista. A differenza che in Francia, dove i ‘Cahiers Du Cinema’ hanno un pubblico sui 60.000 lettori”.

Il sospetto è un po’ che i giornalisti culturali utilizzino davvero un linguaggio solo per addetti ai lavori, che determina quello strano fenomeno per cui – conclude Della Casa – il pubblico per capire se andare a vedere un film o meno, vede quanti pallini gli sono stati assegnati dalla critica, finendo per scegliere di andare al cinema solo per quei film che, per gli esperti del settore, di palline ne meritavano al massimo due.

La soluzione potrebbe essere nelle mani di questi stessi esperti, giornalisti che si occupano di cinema, ma anche di arte, di letteratura, di musica, di cultura in genere. Ed è quella emersa dalle voci un po’ di tutti durante l’incontro e così sintetizzata da D’Ayala: “Noi giornalisti dobbiamo beccare l’alfabeto giusto per stare nel tempo e non, come spesso accade, fuori dal tempo”.