di DANIELE ERLER
FANO – Il giornalismo culturale deve ancora affrontare le sfide del digitale e cercare nuovi spazi per ampliare il proprio pubblico, rifiutando di essere solo un prodotto di nicchia. Piero Dorfles, giornalista e critico letterario, ed Eric Jozsef, corrispondente italiano di Libération hanno dato vita a un dialogo che è stato anche un confronto fra il mondo italiano e francese. Un racconto di esperienze più o meno riuscite, con lo stesso comune denominatore: come può il giornalismo culturale avvicinare un nuovo pubblico? Magari partendo proprio da internet.
“In Francia c’è più attenzione al giornalismo culturale, ma la tendenza è di ghettizzarlo – dice Dorfles – mentre in Italia va anche peggio, perché non esiste più neppure il ghetto. Non ci sono più le redazioni culturali, nei telegiornali la cultura è scomparsa”.
Tutto per Dorfles inizia negli anni Settanta, quando la cultura è stata pian piano messa in secondo piano in chi ambiva ai ruoli dirigenziali. E così, secondo Dorfles, anche l’informazione culturale ha seguito lo stesso destino. “Oggi il nostro è un Paese che declina anche perché è un paese che non legge più”.
“Non bisogna nascondere che il nostro paese è in declino perchè non legge piú” @dorfles al @fgcult #fgc17 pic.twitter.com/od8aS1xaJD
— Il Ducato Urbino (@IlDucato) 14 ottobre 2017
Per di più – sempre secondo Dorfles – l’informazione culturale vorrebbe rivolgersi al grande pubblico, “ma non fa altro che parlare a un’élite”. Una tendenza che deve essere ribaltata: “Prima o poi bisognerà investire sull’informazione culturale per evitarne la ghettizzazione. E se il mercato non premia i contenuti culturali, è perché non abbiamo prodotto ancora i consumatori di cultura”.
Un esempio virtuoso Jozsef lo ritrova proprio nel suo giornale, Libération. “C’è una cosa che mi appassiona. A volte Libération decide di aprire il giornale con un libro. O scrivendo di un film. La grande sfida del giornalismo culturale è proprio questa: di rifiutare di essere relegati, messi in un angolo per gli esperti”.
Ma per cambiare le cose – precisa Jozsef – “serve un’investimento anche della parte pubblica. Altrimenti il rischio è che tutto finisca nelle mani dei privati che tendono a creare ghetti autoreferenziali”. Senza dimenticare un’autocritica: “Noi giornalisti culturali abbiamo deciso di essere ghettizzati, di finire in una parte secondaria del giornale, poi nei supplementi». Vanno bene gli inserti, ma sia Dorfles sia Jozsef concordano che i giornali dovrebbero essere più in generale pregni di cultura, in ogni pagina del giornale.
E internet? Il giornalismo culturale non può ignorarlo del tutto, anzi. Jozsef riflette però sul rischio della bolla che crea internet, se usato in maniera non corretta: “C’è un algoritmo che seleziona per noi quello su cui ci informiamo sulla base dei nostri gusti. Per esempio: chi è appassionato di film indiani, conoscerà tutto, ma solo della materia che gli interessa”.
Si chiama “omofilia”, spiega Dorfles: la tendenza a leggere solo ciò che si ama. Il rischio già presente in parte nei giornali, è stato poi estremizzato da internet. Il pericolo è che “venga meno lo spirito critico” dei lettori. I giornali possono ritrovare proprio in questo contesto il loro ruolo, impossessandosi nuovamente della loro vocazione di mediatori culturali.