Arduino Federici, 91 anni di Monte San Vito (in provincia di Ancona), è uno dei due marchigiani ancora viventi sopravvissuti all’eccidio di Cefalonia: “Il nostro comandante, generale Antonio Gandin, ci disse che i tedeschi volevano la nostra resa – inizia a raccontare Arduino – ci chiese se volevamo allearci con il nemico, cedere le armi o resistere. Non abbiamo avuto dubbi: tutti abbiamo scelto di resistere”. E così, dopo una settimana di combattimenti, il 22 settembre 1943 la divisione Acqui fu sterminata nonostante la resa e il generale Gandin, il 24 settembre, fucilato. “I tedeschi bombardarono le nostre roccaforti – continua Arduino – noi avevamo pochi fucili, eravamo sprovvisti di armi. In più i nazisti arrivarono con i caccia camuffati con i colori italiani. Quando li abbiamo visti eravamo contenti, pensavamo fossero i nostri. Invece era un tranello. Ci hanno falciati, io sono stato ferito e mi sono nascosto dietro a uno scoglio. Dopo un po’ sono arrivati i generali italiani e, dopo aver deposto la mia mitragliatrice, mi mandarono in infermeria e da lì all’ospedale da campo di Argostoli. Dopo una settimana la divisione fu costretta a cedere le armi. Era il 22 settembre”.
A Cefalonia i tedeschi uccisero cinquemila soldati italiani e quasi 450 ufficiali che si arresero dopo un’aspra battaglia. Arduino si salvò grazie ai consigli di un generale emiliano: “Ad Argostoli un generale mi aveva consigliato di stare zitto e di non dire a nessuno la mia nazionalità perché sarebbero arrivati i nazisti. Quindi non parlai quando le SS, passando fra le lettighe, chiesero se c’erano italiani presenti. Poco dopo li hanno uccisi tutti. Davanti ai miei occhi spararono in testa a un medico, che stava operando un soldato, e a un prete”.
Dall’ospedale i superstiti furono caricati su piroscafi destinati ai lager tedeschi. Questa volta la fortuna di Arduino fu di essere ferito e quindi caricato, per fare la traversata fino ad Atene, sulla nave della Croce Rossa. “Se non fossi stato ferito non sarei mai arrivato al campo di Leus. Molti dei miei commilitoni sono morti in mare, ho visto saltare due navi, io ero sulla terza. E poi, si sa, alle navi della Croce Rossa non si spara”.
A ottobre inoltrato, Arduino era prigioniero nel campo della cittadina greca e ci è rimasto per un mese: “La vita laggiù era durissima. Ci davano da mangiare poco, ci nutrivamo con ghiande e bacche cadute a terra. Nel campo mi trovai insieme ai partigiani greci e russi”. I generali nazisti lo hanno costretto a scrivere una lettera per rassicurare i familiari, lettera che è arrivata a destinazione due mesi più tardi: “Mi fecero scrivere quello che volevano loro, che stavo bene e che non dovevano preoccuparsi per me. In realtà pesavo 40 chili”.
Alcuni dei prigionieri del campo sono finiti direttamente nei forni crematori racconta Arduino: “Ci dicevano che li avrebbero portati a lavorare, in realtà li hanno uccisi nei forni”. Lui e altri 23 italiani furono salvati da un caporale austriaco che li portò al Pireo e li lasciò fuggire. Una volta uscito dall’incubo del campo di concentramento, Arduino passò un anno, dal 1944 al 1945, peregrinando di città in città. “Per tornare a casa passai per l’Austria, qui vidi Vienna bruciare, e per la Bulgaria, dove cavalcai per la prima volta dei cavalli. Nel 1945 finalmente arrivai a casa: tornare e riabbracciare gli altri sei fratelli e i miei genitori è stata un’emozione incredibile” conclude Arduino.