“Così sono diventata oncologa (e oggi sono tra le migliori del mondo)”

Emanuela Palmerini
di ELEONORA SERAFINO

URBINO – Riuscire a parlare con Emanuela Palmerini in questi giorni non è semplice. Fuso orario e impegni che per lei in queste ore si susseguono veloci non aiutano. Il medico originario di Urbino è infatti a Chicago, dove è stata premiata, insieme ad altri sette giovani oncologi italiani, dall’Asco (Società americana di oncologia clinica) con il Conquer Cancer Foundation Merit Award per la sua ricerca sull’osteosarcoma, un tumore raro dell’osso che colpisce prevalentemente gli adolescenti.
Per Palmerini, 42 anni, non è la prima volta. A Chicago ci torna spesso da quando ormai 16 anni fa si è laureata in medicina. È la sesta volta che l’Asco la colloca nella rosa dei migliori giovani ricercatori al mondo in oncologia.
Aveva 19 anni quando lasciò la città ducale per studiare medicina. “Al liceo avevo letto di una ricerca sulla terapia genica del cancro”, racconta. Galeotta fu la ricerca e forse la professione del padre, anche lui medico. Durante un viaggio in America conosce un medico che la fa appassionare allo studio delle neoplasie rare che ogni anno colpiscono oltre 3.000 persone in Italia e 150.000 negli Stati Uniti. Dopo poco viene chiamata dall’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna, dove tuttora svolge attività di ricerca.

Dottoressa, per la sesta volta gli Usa la premiano. Cosa ha pensato quando ha saputo della vittoria?
È sempre un’emozione. Il premio riconosce lavori di ricerca fatti in istituti con una certa tradizione e io ho avuto il privilegio di lavorare al Rizzoli di Bologna, che ha scritto la storia dei sarcomi dell’osso. Ci lavorano équipe di chirurghi e patologi altamente specializzati. Ho vinto perché sono riuscita a raccogliere esperienze e tradizione di quello che ormai considero il mio ospedale.
Con un progetto di ricerca che potrebbe cambiare la prognosi di molti pazienti…
Pazienti anche molto giovani, perché l’osteosarcoma localizzato è una malattia rara che colpisce prevalentemente adolescenti. Nel nostro lavoro ci siamo concentrati sul microambiente immunitario, ovvero quelle cellule che ruotano intorno alla cellula tumorale. Abbiamo analizzato 129 pazienti che erano stati sottoposti allo stesso trattamento per la medesima patologia. Stessa chemio, stessa chirurgia, operati dalla stessa équipe chirurgica, tutti con meno di 40 anni. Avrebbero dovuto avere simili probabilità di guarigione. Abbiamo scoperto che, invece, la sopravvivenza dipendeva dalle cellule che circondano il tumore, linfociti infiltranti, i nostri soldati dell’immunità. Chi aveva questi linfociti aveva una probabilità di guarire superiore all’80%, chi non li aveva inferiore al 45%.
Chi ha finanziato la sua ricerca?
L’Università degli studi di Bologna, il progetto era parte integrante del dottorato di ricerca che sto facendo lì.
Ha viaggiato molto per lavoro e fatto ricerca soprattutto negli Stati Uniti. Solo perché lì avere finanziamenti è più facile?
Le differenze sono sostanziali, inutile negarlo. Gli Stati Uniti hanno il National Cancer Institute (NCI) , che ha un sistema di finanziamenti alla ricerca meglio strutturato di altri sistemi che abbiamo in Europa. Ma i fondi europei esistono. Accedervi non è così automatico come in America, ma non è impossibile. Ho deciso di lavorare anche all’estero perché per me questo è un aspetto fondamentale della ricerca. I sarcomi sono patologie aggressive e rare. Per combatterle è necessario unire le forze, anche per un problema statistico: lavorare insieme significa avere più casi da studiare, più elementi a disposizione. Tutti gli anni, ad esempio, vengo a questo congresso a Chicago ed è uno scambio davvero utile.
Per tre settimane ha anche lavorato in uno dei più importanti centri per i sarcomi, quello del dottor Sam Chawla a Santa Monica. Cosa ha portato a casa di quell’esperienza?
Ci sono andata durante le ferie, con i miei soldi, il Rizzoli non mette a disposizione particolari finanziamenti. L’ospedale di Chawla collabora con l’Università di Los Angeles e anche con il Children Hospital, uno dei centri pediatrici più grandi del mondo e ha i protocolli di immunoterapia più innovativi degli Stati Uniti perché è indipendente dal punto di vista economico e dell’organizzazione. Un’esperienza davvero significativa per me.
Però è sempre tornata in Italia…
A Bologna c’è mia sorella gemella, a cui sono molto legata. Inoltre la qualità della vita in Italia non è niente male, si mangia bene e lavoro in un ospedale che per questa sua specifica dedizione alla cura dei sarcomi mi consente di fare ricerca. In più vivo a 15 minuti dall’aeroporto, a un’ora dal mare, a due ore da Urbino.
Urbino è la sua città d’origine… Ci torna spesso?
Non tantissimo, anche se ho un bel rapporto con le persone conosciute ai tempi del liceo. Un’estate ero al mare a Pesaro, dai miei, e ho portato degli amici di Bologna alla Festa del Duca. Quando si è aperta la vista di Urbino dalla salita che viene da Pesaro mi sono molto emozionata. I cortili interni dei palazzi temporaneamente aperti, il calcio fiorentino al Mercatale (abbiamo incontrato Arrigo Sacchi), il Pincio, Palazzo Ducale, tutto immerso nel verde delle colline: decisamente un posto speciale. Urbino è fantastica, ho frequentato il liceo Raffaello e crescere nella culla del Rinascimento e tra le colline del Montefeltro lo considero un privilegio.
Che ne pensa del fatto che una Università importante come la Carlo Bo non abbia la facoltà di medicina?
Un peccato. Ma con il senno di poi consiglierei a tutti di studiare fuori sede. È sicuramente più divertente, ma anche più utile, ti apre la mente, ti offre nuove prospettive.
L’Università Carlo Bo, seppur priva di una facoltà di medicina, porta avanti la ricerca anche in campo oncologico. Nel 2010, ad esempio, i ricercatori Vieri Fusi e Mirco Fanelli hanno scoperto le proprietà anticancro di alcune molecole ottenute attraverso la modifica chimica del maltolo, sostanza che porterebbe le cellule tumorali alla morte. C’è collaborazione tra l’università di Bologna e quella di Urbino per quanto riguarda la ricerca?
Sapevo dello studio di Fusi e Fanelli, che tra l’altro hanno già lavorato con i laboratori di ricerca DrScotland con una pubblicazione su BMCCAncer 2014 sui sarcomi pediatrici. Credo che la collaborazione tra diversi gruppi sia fondamentale. Sono a Chicago in questo momento e in quattro giorni ho aperto collaborazioni con almeno due diversi gruppi (UCLA e MDAnderson): da soli non facciamo tanta strada.
Ora a cosa sta lavorando?
Da quest’anno avremo all’attivo al Rizzoli due studi di immunoterapia. Il primo per l’osteosarcoma e il secondo sulla combinazione di un inibitore dell’angiogenesi con un farmaco immunoterapico per il trattamento di sarcomi sia delle parti molli che dell’osso.
Cosa pensa di quelle che negli ultimi anni sono considerate da molti come le nuove frontiere nel trattamento delle neoplasie: crioterapia, Fus e radiologia interventistica in genere, utilizzata ultimamente anche per rimuovere sarcomi?
La Fus l’abbiamo anche all’Istituto Rizzoli. Spesso vengono considerati trattamenti innovativi, ma a torto, perché sono solo dei contorni ai trattamenti fondamentali del sarcoma, come chirurgia e chemioterapia. Sono palliativi che non cambiano la prognosi di queste patologie o sostituti della chirurgia quando non c’è possibilità di agire chirurgicamente.
Perché ha scelto di studiare medicina?
Ero al liceo, mio padre è medico, lessi un articolo sulla terapia genica del cancro, una sequenza di acidi nucleici che spengono l’interruttore del tumore. Pensai: “Voglio fare questo!”.
E i sarcomi? Perché ha deciso di studiare questi tumori rari?
Un vero e proprio caso. Quando sono stata a New York la prima volta e ho conosciuto un esperto di sarcomi, Robert Maki, non me ne occupavo ancora. Qualche anno dopo sono stata contattata dall’Istituto Ortopedico Rizzoli per una sostituzione di maternità e adesso collaboro con il dottor Maki. Sono responsabile degli studi clinici di fase 1-3 all’interno della mia unità operativa e faccio ricerca all’Università di Bologna.
Quindi ricerca ma anche rapporto diretto con i pazienti, che spesso non hanno più di 14/16 anni. Come si comunica una diagnosi di sarcoma a un ragazzo?
Non è facile, ma ce la metto tutta. Cerco di mettere a disposizione delle persone non solo le mie conoscenze ma anche il mio tempo per ridurre almeno dal punto di vista logistico i problemi a cui devono andare incontro e il carico emotivo che un cambiamento di vita così importante comporta. E in genere è una cosa che i pazienti percepiscono molto, si crea subito un rapporto di fiducia. Consideri che sono trattamenti che durano anche 9 mesi, ogni tre settimane ci sono ricoveri di tre giorni e interventi che necessitano di riposizionamento di protesi o situazioni più complesse. Non è facile, ma il Rizzoli è molto ben attrezzato. C’è un bel servizio di fisioterapia e anche una scuola. Aspetti, questi, che contribuiscono a vivere la malattia in maniera più indolore.
È diverso l’approccio di un medico donna rispetto a quello dei colleghi maschi?
Conosco ottimi medici femmina e ottimi medici maschi, credo non ci sia una grande differenza di genere nella cura dei pazienti. Però è anche vero che in medicina – almeno da quando ho iniziato io – c’è sempre stata una prevalenza di donne, forse perché è una pratica che richiede molta costanza e la costanza, si sa, è una caratteristica più femminile.
Anche sua?
Beh, penso di sì.
È per questo che la rivista Wired l’ha inserita, al 48° posto, nella classifica delle 50 persone da tenere d’occhio?
Già! Subito prima di Putin, che è al 49° posto, e insieme a Emma Thompson (ride, ndr). Però c’era proprio scritto “da tenere d’occhio”. Nella classifica c’è anche Trump. Se bisogna tenermi d’occhio come bisogna tener d’occhio il presidente americano, non credo sia proprio una nota di merito. Vedrò di comportarmi bene!