URBINO – Non solo grandi musei, buona parte del patrimonio culturale d’Italia è custodito nelle piccole “case dell’arte”. Spesso sottovalutati, i micro musei sono strutture che non rientrano nella lista ufficiale stilata dal ministero dei Beni Culturali, ma esistono e in Italia sono ben 170. Insieme formano quella che Vincenzo Trione, preside del dipartimento di Arti, turismo e mercati dell’Università Milanese Iulm, ha definito “l’altra faccia dell’arte italiana”: una rete di piccoli espositori che lui, insieme a un gruppo di ricercatori, ha voluto esplorare e portare alla luce.
“La ricerca è un percorso che mostra l’altro volto della riforma Franceschini. Senz’altro lui ha avuto una funzione fondamentale per riportare l’attenzione mediatica intorno ai beni culturali e lo ha fatto anche in modo aperto: sia attraverso direttori internazionali sia aprendo il mondo dei musei a concorsi pubblici. Ma il suo progetto si è indirizzato soprattutto sui macromusei, lasciando fuori quell’universo pluricentrico che, a parer mio, dal ‘500 a oggi ha rappresentato la vera anima dell’Italia”, ha spiegato Trione durante la presentazione dello studio all’apertura del Festival del giornalismo culturale di Urbino.
I dati. Secondo l’indagine – un’analisi dettagliata dell’offerta micromuseale italiana – le principali aree tematiche in cui si inseriscono i micromusei sono l’archeologia, l’arte antica, l’arte moderna e quella contemporanea che “nel nostro paese è molto diffusa”. Grande escluso invece è il design che “non ha quasi per nulla rappresentanza museale e il Mibact – continua Trione – dovrebbe avere l’obbligo di tutelarlo e considerarlo di più”. Ma è dal punto di vista della distribuzione geografica che i dati mettono in luce una costante italiana: l’enorme discrepanza tra il Nord e il Sud. Dei 170 micro musei pubblici italiani, la grande maggioranza è nelle regioni settentrionali, Lombardia in primis, con Marche e Campania come uniche eccezioni. Stessa geografia, se non peggiore, per i piccoli musei d’impresa, aperti cioè da privati all’interno di aziende: con il 6,6 per cento di presenza, da Roma in poi è il deserto.
I problemi. Le difficoltà sono tante, prima fra tutte la mancanza e l’incapacità di comunicazione. Se i grandi musei possono contare sul nome e sulla pubblicità del Ministero, i micro musei no. E in questo il web e i social network non sembrano venire in aiuto: secondo la ricerca curata da Lella Mazzoli, direttrice del dipartimento di comunicazione all’Università di Urbino, il web è sempre più utilizzato dagli utenti e dai musei, ma gli italiani rimangono saldamente ancorati alla televisione per informarsi. Cosi se quasi il 90 per cento dei direttori museali decide di aprire una pagina Facebook o Twitter (il 62%) per mettere in vetrina il proprio potenziale, il 78 per cento delle persone intervistate preferisce leggere l’orario di apertura direttamente dal sito istituzionale.
Bisogna considerare poi che “molti di loro non ce l’hanno nemmeno un sito internet” – continua Trione – “tra gli altri problemi dobbiamo ricordare inoltre che i micro musei non hanno sostegno economico. Non sanno o forse non hanno energie per parlare con il mondo. Sono spazi che attendono risposte dalle istituzioni pubbliche. Il sostegno che hanno è quello del territorio, puntano tutto sull’eccellenza del prodotto culturale che offrono”.
L’ importanza. Il fatto che siano poco considerati non significa che valgano meno. Tutti insieme, i micro musei restituiscono l’immagine dell’Italia come un grosso puzzle di talenti e spirito d’iniziativa. “Sono una galassia, una rete stellare che fa si che la luce non risplenda solo nei centri ma anche nelle periferie”. Sono musei che nascono dal basso, in molti casi in aree periferiche, e che hanno forti legami con la cultura e la storia del territorio in cui sorgono. “E un giorno – promette il professore – ci si accorgerà di loro: Quando molto più del Pil sarà il livello estetico a indicare il progresso di una società”.