di LORENZO PASTUGLIA
URBINO – “Come faccio a tenere lontana questa canzone da chi non la deve ascoltare” cantava ieri pomeriggio, giovedì 18 maggio, al collegio Il Colle, Lodovico ‘Lodo’ Guenzi de Lo Stato Sociale, uno dei gruppi attuali più importanti del panorama indie-rock italiano. Il frontman bolognese è stato ospite d’onore per l’edizione finale del Re-College, evento organizzato dall’associazione studentesca di Agorà.
Guenzi – prima di rispondere alle domande del Ducato – ha parlato del rapporto studente-Comune in un contesto come quello delle città universitarie, sottolineando l’importanza dei giovani. “Dovete unirvi e far valere i propri diritti ad ogni costo, prendete la residenza e andate a votare per cambiare la città”.
Lodo, come nasce Lo Stato Sociale e perché avete chiamato il gruppo così?
Nasce dal Dlf (Dopo lavoro ferroviario, ndr). Con gli altri compagni leggevamo degli articoli in giornali dove si diceva che lo stato sociale doveva esistere in Italia. Ci siamo detti un po’ a caso di chiamare la nostra band così e alla fine l’abbiamo fatto.
Parlando delle vostre canzoni: pensate prima al testo o alla base musicale?
Prima di tutto sempre al testo, poi proviamo a buttare giù due accordi di chitarra.
Il 10 marzo scorso è uscito Amore, lavoro e altri miti da sfatare, come nasce l’album?
Nasce da una gestazione lunghissima. All’ascolto è un album più sperimentale di quello che sembra: nell’identificazione della voce, negli argomenti che analizza, nella tecnica tra parlato e cantato. Lo ascolti e non sai mai dove sei. Lo abbiamo prodotto dopo una lunga pausa dagli altri due dischi che ci avevano cambiato la vita. Amore, lavoro e altri miti da sfatare è il primo disco che abbiamo fatto ‘per lavoro’. Lo abbiamo creato con pressioni, liti, coinvolgimenti e aspettative di tutti e cinque i membri della band. Anzi, sei con Matteo (Romagnoli, manager de Lo stato sociale, ndr). Il titolo l’ha pensato ‘Albi’ (Alberto Cazzola, voce e basso della band, ndr). Solo fra qualche mese saprò dirti che riscontro ha avuto.
È giusto che un cantante o un gruppo si schieri politicamente o dovrebbe rimanere fuori dalla politica?
Ti rigiro la domanda: “Rimanere fuori dalla politica è possibile?”. Io non credo. La politica è quando paghi tu l’affitto nella città dove sei studente, la prospettiva di vita che hai dopo l’università, quanto spendi per il pane, se i trasporti pubblici funzionano, se puoi andare in ospedale quando stai male e devi pagare oppure no. Anche il non occuparsi di politica significa omettere una parte della vita e fare una scelta. Persino il solo parlare d’amore potrebbe essere considerata una mossa politica.
Se una persona ti dicesse di fare alcuni favori per lui in cambio del successo musicale, accetteresti questo compromesso oppure rimarresti fedele alla linea del merito?
No, al diavolo! La fama e il successo non sono valori in sé. Il vero valore è costruirti attorno a te un qualcosa di vero, che esiste, da trasmettere alle persone che ti vogliono bene. Se crei qualcosa che non sei duri poco nel tempo.
Perché i talent al giorno d’oggi hanno successo e, soprattutto, credi che gli artisti che ne sono usciti meritano la fama che hanno?
Nessuno ha il diritto di giudicare altre persone per il loro successo. Se molte persone ascoltano ad esempio Emma Marrone non credo siano stupide se provano un’emozione. Per quanto riguarda i talent, esistono tre categorie: quelli che lo fanno e il giorno dopo non esistono, quelli che hanno una grande personalità e resistono e quelli che lo fanno e per un anno e mezzo hanno successo perché la relazione non è tra pubblico e canzoni, ma tra pubblico e trasmissione televisiva che in quel momento ti dice “abbiamo questo per riempire questo buco”. Credo però che nei talent ci sia un grande vuoto narrativo, tutti i personaggi sono molto simili e inquadrati.
Molti artisti o gruppi nel corso della loro carriera hanno cambiato genere musicale, credi che sia giusto cambiare per provare altri stili, con il rischio di non piacere, o meglio andare sempre sul sicuro?
Posto l’assioma che uno deve fare quello che gli pare, credo che ogni tanto un cambio di genere vada fatto anche per dei motivi non solo di ricerca personale. Se tu scrivi una canzone in camera tua con gli amici e poi ti trovi a farla conoscere al mondo, ecco che c’è un motivo differente. Le persone non dovrebbero essere così tanto affezionate all’idea che un artista non debba cambiare. È chiaro che c’è un’evoluzione in tutto e bisogna accettare che il gruppo o l’artista che ami è anche quello che è adesso. Per esempio, io sono un appassionato dei Radiohead e lì andrei a vedere anche se cambiassero stile. Poi certo, se c’è un qualcosa che non mi piace un po’ mi dispiacerebbe.
Molte canzoni oggi sono prodotte più per soddisfare un gusto commerciale che per altro: credi che il commercio abbia storpiato la naturalezza della musica?
Sì, anche se devo dire che qualcuno aspetta solo che il successo commerciale e quindi non cambia la naturalezza dei sentimenti di chi la musica la fa. Viviamo in un mondo in cui le persone sono pronte a tutto. I grandi canali di divulgazione generalisti riconoscono pochi linguaggi, molto codificati, lontano dai quali certe cose difficilmente si riescono a fare.
Come può lo studente tornare a essere la figura di primo piano in un’Italia con poche prospettive e con i giovani in fuga verso l’estero?
Prendendo la residenza, ovunque sia, e andando a votare. Abbiamo tante città italiane popolate da studenti che non votano e governate da comitati di vecchi che negano la vita sociale. Nel centro di Urbino ci sono 2.500 studenti e 500 residenti. Il giorno in cui gli studenti potranno esprimere la loro opinione per i sindaci potrebbero esserci dei problemi. Ci sarebbe un guadagno in prospettiva sugli affitti, sulla vita, sul costo dei locali e si saprebbe anche dove investire per poi non subire. Bisogna agire con coscienza politica: gli studenti devono unirsi e devono far valere i propri diritti.
A proposito di diritti, come cambia il rapporto tra studente-Comune nelle piccole e nelle grandi città universitarie?
Cambia soprattutto in periferia, nelle realtà molto piccole. Ad esempio, ho suonato con gli altri della band a Roccadaspide e gli studenti hanno gestito tutto con l’assessore. A Bologna hai il Pd con tutti i problemi che ha: ci sono 70 centri sociali, 15 movimenti diversi ed è problematico. Nelle realtà piccole, invece, c’è un qualcosa di magico.