di LORENZO PASTUGLIA
URBINO – Un percorso che l’ha portata dal suo Abruzzo all’America (prima) e alla Scozia poi. Tre lauree, un ruolo appena concluso da Ambasciatrice dei dottorandi e il premio vinto in un prestigioso programma di biologia molecolare dell’Università di Dundee (Regno Unito). I suoi studi a quattro tipi di geni diversi stanno dando risultati che potrebbero portare un giorno a combattere la menopausa precoce femminile, la sterilità, il cancro e le malattie autoimmuni. Laura D’Ignazio, 30 anni, è una ricercatrice di Alba Adriatica che si è formata alla “Carlo Bo” prima del suo trasferimento all’estero. E proprio dalla Scozia ha parlato al Ducato. Tanti sogni e un obiettivo futuro ben preciso: quello di tornare a lavorare negli Usa. A chi le chiede una differenza tra ricerca italiana e straniera, amareggiata dice: “Fuori Italia ci sono più fondi e ho la libertà di fare studi più approfonditi con macchinari efficientissimi. Da noi ci si deve contenere. Uno dei motivi che mi spinge a rimanere all’estero”.
La ‘secchiona’ della classe
Studiare è un’attività che è sempre piaciuta alla ricercatrice abruzzese. Con voti alti e grande soddisfazione dei propri genitori, la D’Ignazio termina il Liceo scientifico di Giulianova. Tra una lezione e un’altra, nota alcuni cartelloni promozionali di varie università: c’è anche quella del corso di biotecnologie dell’Aquila. Nonostante una passione iniziale per la fisioterapia, su consiglio dei professori decide poi di puntare ad altri ambiti. Si iscrive così al corso di Biotecnologie a Fano, sede staccata di Urbino: “Volevo provare un’esperienza nuova e diversa e – afferma – non vedere le stesse facce, così ho deciso di andare fuori regione”.
Nelle Marche arriva così prima la laurea triennale, poi la specialistica in Biotecnologie industriali. Durante una pratica nel laboratorio di Biologia molecolare e genetica medica del Cante di Montevecchio, a pochi esami dal traguardo finale, arriva la proposta da parte del consulente del laboratorio, Antonino Forabosco: “Laura, ti piacerebbe andare a lavorare in America?”. Quell’offerta la D’Ignazio non se la fa sfuggire e così viaggia fino a Baltimora, nel Maryland, dove approda al National Institute of Health nell’ottobre del 2011, tre mesi dopo il conseguimento della specialistica.
Tra studio e lavoro
Negli Usa rimane per quasi tre anni lavorando di giorno e studiando la notte. Pochi giorni prima della partenza infatti, in un congresso del professor Forabosco, l’allora preside della facoltà di Scienze e Tecnologie dell’Università di Urbino, Stefano Papa, le chiede di iscriversi al corso magistrale in Biologia molecolare, sanitaria e della nutrizione per arricchire ancor di più il suo curriculum: “Nel 2011 quando rientravo in Italia per le ferie mi organizzavo con i professori: in quelle settimane capitava facessi cinque esami in tre giorni”, dice ridendo.
Alla fine, nel 2013 arriva la terza corona d’alloro e l’orgoglio di aver pagato le tasse universitarie con i propri soldi, senza l’aiuto dei genitori. L’argomento della tesi è lo stesso del progetto di ricerca seguito negli Usa: uno studio sui geni Foxl2 e Lhx8 per capire quali sono i processi molecolari importanti per la maturazione e il mantenimento dei follicoli nelle ovaie. Ricerche fondamentali per combattere malattie dove questi meccanismi sono alterati e la donna può essere affetta da menopausa precoce e sterilità.
Dallo studio è venuta fuori la scoperta: la causa del processo di morte cellulare è l’autofagia (che si innesca quando vengono a mancare nutrienti all’interno delle cellule, in questo caso attivato come risposta ad una condizione di stress). Lo studio viene pubblicato a gennaio sulla rivista online Biology of Reproduction.
Il ritorno in Europa
L’esperienza americana si conclude nel 2014, ma già un anno prima della scadenza del contratto Laura D’Ignazio inizia a guardarsi intorno. Crede infatti che al suo curriculum universitario manchi un ultimo tassello. La soluzione migliore è quella di cercare qualche corso in Europa: “Ho controllato in Danimarca, in Francia e anche Sudafrica ma – spiega – l’Inghilterra era la prima in ordine temporale e la Scozia seconda. Così ho compilato i form per Londra ma ho ricevuto un no secco. Poi ho provato con Dundee e sono riuscita ad entrare”.
Il programma dove viene selezionata è il Wellcome Trust PhD in Biologia molecolare e cellulare dove è tuttora al quarto anno: “Uno dei programmi più prestigiosi in tutto il Regno Unito”, esclama orgogliosa. Diventa ambasciatrice dei dottorandi del programma (un ruolo gestito fino a novembre 2017) e nel 2016 membro della commissione incaricata per l’organizzazione del Simposio annuale del proprio Dipartimento.
Con il Wellcome vince anche il premio dell’Università, il Dundee Plus Award, assieme all’amica e compagna di ricerca, Francesca Anna Carrieri, per le competenze acquisite in attività extracurricolare: la capacità di leadership, di lavoro in tema, di risolvere problemi legati ad attività di organizzazione e di gestione del budget: “Sono skills che ho acquisito nel tempo, richieste da tutti i datori di lavoro nel mondo, che mi hanno permesso di vincere”.
L’oggetto di studio in Scozia sono stavolta i geni HIF e NF-kB – fondamentali nel processo di adattamento e risposta del nostro corpo all’infiammazione e alla mancanza di ossigeno – che interconnessi tra loro interagiscono regolandosi l’uno con l’altro. Questo fenomeno, chiamato crosstalk, può così aprire nuove strade a terapie mirate per combattere il cancro e le malattie autoimmuni.
Gli esperimenti, stavolta, non vedono i topi come cavie ma le drosofile, i cosiddetti moscerini della frutta: “Il mio compito è quello di usare vari modelli di linee cellulari stimolando processi infiammatori all’interno delle cellule, poi vedere cosa succede all’interno e come si comportano questi geni”. “L’HIF e il NF-kB sono molto simili tra l’uomo e le drosofile: analizzare i moscerini è così fondamentale per la ricerca”.
L’Italia: un Paese con poche opportunità
L’obiettivo futuro della D’Ignazio, alla fine del suo percorso scozzese, è quello di tornare a lavorare negli Usa: “Amo la cultura, la gente americana e tutte le varie sfaccettature”. Alla domanda “Ti senti un cervello in fuga?”, lei scuote la testa: “Non mi sento né cervello, né in fuga. La prima possibilità è stata all’estero e mi sono innamorata dei Paesi dove sono stata, tutto qua. In Italia forse tornerò tra circa 15 anni, ma solo perché avrò voglia di riavvicinarmi alla mia famiglia. Finché avrò possibilità cercherò di inseguire i miei sogni altrove”.
In questi anni ha potuto sperimentare la differenza tra la ricerca italiana e quella internazionale, riflettendo su questo, si acciglia: “In Italia ci sono persone con idee validissime ma i fondi sono scarsi rispetto all’estero. In America e in Scozia non ho problemi per fare ricerca e ho la libertà di fare studi costosi con macchinari efficientissimi. In Italia bisogna contenersi di più con quello che si ha. Certo, bisogna vedere di istituto in istituto, ma questo è sicuramente uno dei motivi che mi spinge a rimanere all’estero”.
Secondo lei in Italia c’è tutto: “Il cibo, la vita sana, gli affetti, la famiglia, ma non c’è lavoro perché guardando su LinkedIn la maggior parte delle possibilità sono stage non retribuiti. All’estero invece se mi offrono un contratto dai due ai tre anni ho più stabilità e mi fido maggiormente”. Un’instabilità italiana che, a detta sua, riguarda tutti i mestieri “dal cameriere al segretario, fino al ricercatore”.