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Maria
comincia la pratica | “Mia
mamma ha tolto la paura fino all’ultimo giorno, fin quando è morta
a 78 anni. Finchè c’era lei, faceva tutto lei, ma mi aveva insegnato tutto e io
cominciai ad aiutarla e ad assisterla. Poi le persone che venivano da lei continuarono
a venire da me”. La
signora Maria ricorda con piacere, nel suo italiano stentato che procede
inciampando in un dialetto più sicuro, una storia familiare di virtù guaritrici.
Vuole spiegare, certo, ma prima di tutto vuole far capire con le mani anziché
con la parola. E allora ti chiede di alzare maglione e camicia e di scoprire la
pancia: è lì che può nascondersi il “male”. Seduti
su due sedie, in una cucina di sughi e di pentole che sfrigolano nell’ora quasi
sacrale del pranzo, quando la casa si riempie della famiglia, paziente e curatore,
uno di fronte all’altro, diventano parti di un rito condiviso. Pochi passaggi,
oscuri a volerli interpretare, delle mani sapienti attorno all’ombelico e la diagnosi
è certa; il dialetto che la esprime, senza tentennamenti: “Auete, la tène e
pir gross (altrochè se ce l’hai, è parecchia)”.
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Adesso
si chiacchiera | Maria
si riferisce alla paura, uno strano sintomo di malessere che letteralmente
prende allo stomaco. Altrove forse lo chiamano diversamente, qui si riferisce
a un trauma, uno spavento, insomma un evento scatenante che non si riesce
a rimuovere e può provocare dolori di pancia o anche nausea, sicuramente tanta,
tanta insicurezza. Davanti al responso, non resta che pensare cosa possa
essere accaduto di tanto grave e scatenare lo scetticismo per la mancanza dei
sintomi illustrati. Maria non si perde d’animo e ti risponde che non sempre ti
fa soffrire, spesso agisce più subdolamente, ma è un blocco che tende i nervi.
Poi comincia a curarti. Chiude
gli occhi vivacissimi dietro le spesse lenti e sembra in trance, mentre ripete
a mezza bocca parole incomprensibili e misteriose, con una mano poggiata
in grembo e l’altra che si muove disegnando tratti sicuri dall’alto in basso,
strisciando il palmo rugoso più e più volte. Intorno a lei ci sono rumori, gente
che parla, ma lei non se ne accorge e continua nella sua nenia sussurrata. Dopo
tanti passaggi tutti uguali a destra e a sinistra dell’ombelico, si ferma un attimo,
fa tre segni della croce puntando la mano sulla zona interessata, un bacio
alla stessa mano e la ripetizione di gesti identici riprende come in una litania.
Allo stesso modo, dopo una ventina di minuti ininterrotti, conclude il rito e
si ha l’impressione che si sia consumata una benedizione. Non
è stanca assolutamente, perché ricomincia subito a raccontare. “Le parole non
te le posso dire, sono segretissime. Si possono insegnare solo a mezzanotte in
punto della vigilia di Natale, alle vie cruce (al centro di un crocevia).
Così fece mia madre con me e così ho già fatto io e altre volte farò. Mia madre
in realtà faceva di tutto, guariva anche dai vermi, aggiustava le ossa
e faceva il sanciprien (San Cipriano). Quando morì mia madre, al
funerale c’era tutta Bisceglie e sai perché? Perché noi facciamo il bene
e la gente ci vuole bene ed è riconoscente. Vedi, per esempio, ieri sera: erano
già le dieci quando si presentano due fidanzati di Trani. La ragazza è in cinta
e si sente sempre male. Mi è bastato mettere una mano per capire che in realtà
è la paura di confessarlo ai genitori. Ma con me guarirà”.
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La
cura è finita | Il
tempo delle domande è finito, ora si pranza. Per farsi raccontare del San Cipriano
di sua madre, non c’è fretta. “Tanto - raccomanda Maria - perché la guarigione
abbia effetto devi tornare per tre giorni consecutivi, in mattinata, a
digiuno. Ora torna a casa e bevi una bella camomilla calda. Poi mangia
in quantità e non aver paura!”. Guarda
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